Un racconto di Matteo Marenco
Numero di battute: 2265
Cammino come sempre: mani in tasca, sguardo rivolto all’asfalto. Anche stasera lo zaino è pesante e penso al peggio. Il rumore dell’automobile che si sta avvicinando mi prende alla gola. Due uomini camminano verso di me. L’appartamento al primo piano nella strada di fronte è illuminato. È un attacco coordinato. Mi faranno aprire lo zaino e sarà finita. Poi non succede niente, ma io ci casco sempre.
Iniziai a diciassette anni. A metà mese mamma aveva già finito i soldi: una soluzione andava trovata. Facevo i pieni, così li chiamavo. Entravo, vagavo disinteressato per gli scaffali, agivo. Dolci, pane, formaggi, passate di pomodoro. Tonno. Prediligevo il tonno. Caro e superfluo. Da quando lavoro ho cambiato tattica. Prendo tre, pago due. Sono diventato più moderato, ma il senso di colpa mi attanaglia.
«Vivo con un faro puntato addosso, non riesco
a liberarmene.»
Vivo con un faro puntato addosso, non riesco a liberarmene. Quando non mi segue sono io a ricercarlo. Mi ricorda da dove vengo. Ma più mi illumina e più sono prigioniero della Grande inchiesta. Così la chiamo. Decine, centinaia di persone senza volto che indagano sui miei movimenti degli ultimi anni. Richiedono filmati, li ottengono, li visionano. Prendono appunti. Ipotizzano reati. Un giorno arrivano e mi strangolano. Mi strangolano con la legge, senza torcermi un capello. Dimostrano al mondo che sono un fallito.
Poi non succede niente, ma io ci casco sempre. E stasera ho delle pessime sensazioni. La cassiera mi ha guardato con occhi sospettosi. Pensano che non me ne accorga! Stringo le mani in tasca e abbasso ancora di più lo sguardo. Spero che non mi riconosceranno, ma sanno tutto di me: un ventottenne insolente che ruba nei supermercati, un po’ per necessità un po’ per giustizia. Non c’è scampo. La Grande inchiesta satura l’aria che respiro. Cosa dirò quando mi prenderanno? Piangerò? Farò finta di svenire? Fingere non servirà.
Dall’altra parte della strada vedo un ragazzo. Mani in tasca, sguardo rivolto all’asfalto, zaino in spalla. Mi sembra di guardarmi allo specchio, ma il riflesso si muove diversamente da me. Indica lo zaino. Sogghigna, tira fuori il distintivo e mi fa il segno delle manette. Corro. Corriamo. Mi raggiunge e mi sbatte sul marciapiede.
«Adesso la smetterai?»
Non mi sono mai guardato negli occhi così da vicino.
Matteo Marenco (1992) è sociologo del lavoro all’Istituto Max Planck di Colonia, Germania. Ha da poco finito di scrivere il suo primo romanzo e sta frequentando un corso di scrittura presso la Scuola Holden. Ama i massimi sistemi e i minimi dettagli.
Un racconto di Esther Bondì
Numero di battute: 1920
Le giornate di Caterina iniziano col mal di testa. Anche stamattina. Caterina infila le ciabatte, prepara il caffè, si trascina in balcone e lo sorseggia piano, come se bere la cosa calda e nera potesse farglielo passare. Il medico è stato chiaro, il caffè non le giova all’emicrania, ma se c’è una cosa che Caterina proprio non sa fare è non giovare alla sua emicrania. I bambini si riversano in strada aggruppati alle mani delle mamme. Caterina pensa alle formiche che le vanno a rubare lo zucchero dalla credenza.
Caterina beve l’ultimo sorso di caffè e si siede al pianoforte. Suona per due ore in fila indiana: Bach, Händel, Mozart, Chopin. Le dita sono calde, la testa pulsa. Briciole nere si aggruppano notano giocano, l’emicrania, si confondono suonano nuotano, non arriva la tregua.
«Caterina ha un dolore che sembra nome di isola greca.»
Caterina toglie il pigiama che sono le dodici, si veste e di nuovo ciabatte, suona per altre due ore: Liszt, Chopin, Liszt, Rachmaninov, Haydn, Bartók. Alle due visita fame e rovista le ultime briciole, farina biscotto al ricordo integrale. Ha ancora fame, in frigorifero c’è l’ultimo yogurt, Caterina lo lascia a metà sul tavolo della cucina. Il cucchiaino affoga in sordina.
Caterina ha un dolore che sembra nome di isola greca, ma si consola al pensiero di un male che suona come anemiche spiagge. Si siede di nuovo a notare a punti il dolore, di nero formiche che suonano e pulsano e raccontano in testa. Caterina risacca le onde, il mare avanti e indietro ingoia sabbia nera su carta.
Caterina raccoglie spartiti, incalza gli zoccoli e esce, il medico dice che passeggiare la sera le fa bene: Caterina è contenta, perché questo lei già lo faceva.
Citofona e sale, al secondo piano le scale, gli spartiti insieme consegna. Le pagine spartiscono di mano in mano, si scorrono e bagnano, applaudono di ciglia le orecchie curiose: il dolore di Caterina ha un nome sempre straniero. Caterina i punti consegna: stamattina era il mare.
Esther Bondì (Montecchio Emilia, 1994) è laureata in Linguistica Indoeuropea Comparata. Ha pubblicato racconti su varie riviste italiane. Dal 2024 lavora presso l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, fa parte della redazione della rivista Narrandom e collabora come tutor per il minimumlab. Piatti rotti (Giulio Perrone Editore, 2024)
è il suo esordio.
Un racconto di Lorenzo Cancelli
Numero di battute: 2438
La chiamavamo Suor Faina e io la odiavo.
Il soprannome se lo erano guadagnato il viso smunto e gli occhietti instancabili che tenevano tutto sotto controllo. A Carmine piaceva, secondo lui metteva di nascosto un certo profumo alla cannella che lo faceva impazzire, ma io di profumi non ci capivo niente, per me puzzava di incenso e tartaro come tutte le suore. Aveva poi una certa passione per far schioccare il nerbo sui nostri corpi quando, secondo lei, meritavamo una punizione terrena, e nel mio caso accadeva piuttosto di frequente, ché ero tra i più grandi e dovevo dare il buon esempio.
Una notte che mi beccò con gli altri in dispensa a fumare una stecca di Camel ci fece mettere in riga sul sagrato e tirò a tutti due ceffoni, ma a me ne rifilò quattro in dritto e rovescio, con un piacere tale che dopo continuò per un po’ a massaggiarsi i palmi. Ci prese le sigarette e girò sui tacchi senza dire altro. Quella me la segnai sul serio, e aspettai che se ne andasse in pellegrinaggio non so dove per entrare nella sua stanza con una copia delle chiavi.
«La chiamavamo Suor Faina
e io la odiavo.»
Era un loculo spoglio e ingiallito, con una sola finestrella rachitica e un crocifisso ritirato in un angolo della parete di fronte al letto. Non riuscivo a trovare dove avesse nascosto le Camel, ma una volta aperto il comodino me ne dimenticai totalmente. Dal cassetto spuntavano una manciata di foto di quando ci avevano portato a nuotare al lago, e in tutte, al centro, c’ero io.
Immagino che mi sarei dovuto sentire scosso, disgustato, forse addirittura terrorizzato, ma se anche ci fosse stato qualcosa di tutto questo dentro di me in quel momento era schiacciato da un’incontenibile euforia, tanto che mi misi a ridere e ballare, da solo, come un cretino. Mi trovò in piedi in mezzo alla sua cella e già iniziava a sbraitare e agitare i polsi, ma quando le sventolai davanti la mia scoperta dovette sedersi sul letto, sussurrando qualcosa a metà tra una breve preghiera e una lunga bestemmia.
«Ti supplico» mormorava tra i singhiozzi.
Ma io dovevo sembrare davvero di marmo, perché quella chinò lentamente il capo e si sciolse il soggolo, lasciando che una chioma nera e scomposta le scivolasse sul petto e sulla schiena, gli occhietti irrequieti fissi su di me. Fui come cera. Probabilmente non se lo aspettava, stracciai le foto. Mi sedetti sul giaciglio al suo fianco, le passai un braccio dietro le scapole e le appoggiai la tempia sulla spalla. Profumava di cannella.
Lorenzo Cancelli (1995), livornese, medico specializzando con refrattario amore per l’arte nelle sue varie forme. Eterno esordiente nella scrittura, nel lavoro, nella vita.
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