Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Febbraio 2025


racconto mongiovì

notturno

Un racconto di Marina Mongiovì
Numero di battute: 2086

A ogni passo esplode uno stridere di foglie. Mi sollevo sulle punte come quando, da bambina, entravo in camera di mamma e papà. Guardo alle mie spalle e vedo filari di querce e castagni, folate improvvise fanno stormire le fronde. È qui, da qualche parte nell’ombra. Il lupo, l’orco, l’uomo nero. La sua figura potrebbe confondersi tra rette di cortecce. Mi osserva e conosce l’incedere incerto, le pupille assetate di luce, la fame d’aria nel petto della preda. Respira piano e attende che io mi fermi, in un eccesso di fiducia o con le gambe spezzate dalla fatica.

Una luna calante illumina un percorso di sassi e rovi. Il bosco ha dita sottili che solleticano la schiena, le caviglie e i polpacci. Mi piace pensare che le tele dei ragni e le resine dei pini possano sanare gli squarci sulla carne, alleviare il dolore viola dei pugni. Voglio credere che tutte le foglie, con il loro canto notturno, possano placare questa angoscia che preme sul costato.

«È qui, da qualche parte nell’ombra.»

La casa è a valle, adagiata su una pianura che odora di zagara, al riparo dal maestrale. Da una finestra si vede la montagna e, verso est, si intravede uno scorcio di mare. La casa sta in mezzo, è qualcosa che non sa cosa essere e cosa diventare. Là ho lasciato file di detersivi e grucce, una tavola apparecchiata per cena, le lenzuola da lavare, il vorticare monotono delle centrifughe, la piattaia e i barattoli di yogurt, illuminati dalla fredda luce del frigo. Nella normalità di un divano e un televisore, risuona ancora il singhiozzare dentro a uno sgabuzzino, e assordano i silenzi come bandiere bianche.

Il buio del bosco non fa paura, come nelle fiabe che mi raccontavano da piccola. Sono nel posto giusto, tra lo sguisciare di piccoli rettili, le ombre che si allungano, il canto dei grilli e della civetta, l’odore di terra umida che, dalle narici, scende ai talloni e mette radici. Superato un pendio si apre una radura, quello che un tempo era un cratere vulcanico ora è un lago di foglie d’acanto e felci. Sulla testa non ho più le chiome dei faggi ma uno sciame di stelle.

Mi volto un’ultima volta. L’ho seminato.

Mongiovì Marina

Marina Mongiovì (1982) di origine etnea, vive a Palermo. Ha pubblicato racconti sulle riviste Blam, Morel voci dall’isola, Pastrengo, Sine Pagina, Tremila battute. Fa parte della redazione di Spazinclusi. Ha pubblicato la raccolta di racconti Sciara (Kalòs 2023, finalista ai premi Città di Lugnano in Teverina, Etnabook, Città di Erice; semifinalista al premio Città di Como). Accanto alla scrittura, coltiva la passione per la fotografia. Sue fotografie vengono esposte in mostre collettive al Wegil di Roma e e nel Centro Internazionale di Fotografia di Palermo. Nel 2022 ha pubblicato un racconto fotografico dell’opera di Giovanni Verga, Storie del Castello di Trezza (Rossomalpelo Edizioni), da cui è nata una mostra personale ad Aci Castello.

racconto andrea leone

l’ impennatore

Un racconto di Andrea Leone
Numero di battute: 2215

Aveva atteso un attimo, in equilibrio di fronte al cancello, dando solo un filo di gas; poi aveva spalancato, e la For Race e il blocco 70cc Polini Sport e il filtro a cono avevano urlato come uno stadio intero, e la ruota anteriore s’era immediatamente impennata; casa sua l’aveva “salutata” col dito medio alzato, ancora impennando, con la mano destra che amministrava ritmicamente il gas, mantenendolo in perfetto equilibrio.

Il cielo era un deserto d’azzurro, e ora sì che finalmente si ragionava: l’odore speziato dello scarico, il frastuono amico nelle orecchie, e solo lui e quel cielo, uno di fronte all’altro, senza più voci, facce sgradite, rotture di coglioni, né niente.

«Era un vero fenomeno a impennare.»

Voglia di tirare fuori anche la lingua, di prenderlo a morsi quel cielo; e anche di sputare all’indietro, soprattutto quando (come in questo caso) con la coda dell’occhio notava una sagoma di vecchietta lungo il ciglio della strada. S’immaginava allora la decrepita in questione che ne seguiva la traiettoria, fino a terra, e poi che scuoteva la testa, lagnandosi di quegli sciagurati-giovani-di-oggi. E anche, come ci rideva!

Era un vero fenomeno a impennare. Una delle cose che più amava e che più sentiva di saper fare. (Ma anche la cosa di lui che più era risaputa e tenuta in conto dai coetanei, ché lui era quello “baciato da Dio”, che aveva un talento come non s’era mai visto a starsene lassù, su-una-ruota.)

Avesse potuto? Praticamente si sarebbe votato solo a quello. A impennare. L’impennatore avrebbe fatto.

Ma di più: in quel momento, lungo la via, se la via stessa si fosse ripiegata per formare un circuito infinito, lui avrebbe firmato seduta stante per non tornare mai più giù, a terra. Gli era presa così, un’improvvisa smania di restarsene per aria, su-una-ruota, fino a data da destinarsi…

Ma c’era lo stop: e quasi l’avrebbe eluso, si sarebbe immesso in strada tra un po’ senza guardare, tenendo fede a quel matto proposito, assurdamente sicuro…

Ma un camion sopraggiungeva… strombazzò fragorosamente…

E per un’unghia soltanto, (un’unghia, dico!), riabbassandosi, deviando appena in tempo nel fosso di fianco alla strada, non fece di sé e del suo Phantom F12 truccato uno sfacelo di acciaio, vetroresina e carne.

bio andrea leone

Andrea Leone è nato a Lucca nel 1989. Dopo undici anni di autoproduzioni musicali (tra cui un disco, TRE, prodotto nel 2016 da Manza Nera label), dal 2017 si dedica stabilmente alla letteratura. Un suo racconto è apparso sulla rivista Smezziamo.

racconto Martina Ciullo

2085

Un racconto di Martina Ciullo
Numero di battute: 2314

Da quando avevamo scoperto che ero incinta ne avevamo visti a decine.

I colloqui li facevamo in ufficio. «La prudenza non è mai troppa» diceva mio marito, e io ero d’accordo, soprattutto quando si parlava di robot-babysitter. Si sentivano strane storie. Un luccichio sospetto in fondo agli occhi, un cenno furtivo con la mano. Certi modelli sembravano leccarsi le labbra, anche se non avevano né lingua né labbra.

«Ho sentito dire che un robot ha cercato di rapirne uno» dicevo a mio marito, la sera, a letto. Lui mi rassicurava, avevamo iniziato a cercare con grande anticipo e avremmo scelto un modello di prima fascia.

«Si sentivano strane storie.»

E poi, dopo infiniti colloqui, avevamo conosciuto lui, un robot maschio. Non che li avessimo esclusi a priori, ma sapevamo che le femmine avevano più skills. Eppure appena avevo visto Ting Ting avevo capito che era quello giusto.
Lo sguardo dolce, le mani sulle ginocchia. Sembrava un uomo appena arrivato nel nostro paese da molto lontano più che un robot governativo progettato per aiutare le famiglie che potevano permetterselo.

Ting Ting mi aveva chiesto: «Come si chiamerà?», e siccome nessun altro robot aveva mai fatto una domanda simile, io, d’istinto, gli avevo risposto.

Poi mio marito mi aveva sgridata: «Perché gli hai detto il nome vero?».
Mi fidavo già di Ting Ting, ma non potevo certo dirglielo.

Dopo altri due colloqui nell’ufficio, l’avevamo fatto venire a casa nostra. Lui sfiorava tutto con lo sguardo, stando bene attento a non urtare nulla. Io gli sorridevo, sempre più rotonda.

«Vieni, Ting Ting, ti faccio vedere la camera della bambina.» Lui era rimasto per lunghi minuti a fissare la culla.

«In quale lingua vorresti parlarle?» gli aveva chiesto mio marito. La prima funzione dei robot-babysitter era far crescere i bambini bilingui.
Ting Ting gli aveva risposto con una rapidità sorprendente: «Potrei parlarle in cinese?».

Nessuno di noi aveva niente in contrario, anche se avremmo preferito una lingua più internazionale. Dopo la guerra nucleare la Cina era una minoranza, ormai meno di un milione di persone parlavano mandarino nel mondo.

«Sei cinese, Ting Ting?», gli avevo chiesto, senza nessun motivo, e infatti non mi aspettavo che lui mi rispondesse.

Avevo pensato che eravamo fortunati, io, mio marito e la bambina.

Poi lui aveva detto: «Vorrei saperlo anch’io».

ciullo martina bio

Martina Ciullo è una violinista professionista e scrive da sempre. Ha studiato Giornalismo a Trieste e Sceneggiatura alla Scuola Holden. Vive a Roma.

dioguardi andrea

per una fetta di torta

Un racconto di Andrea Dioguardi
Numero di battute: 2464

Arrivano all’ultimo piano con l’affanno perché, anche se zoppica, Lisa non prenderebbe mai l’ascensore. Nino si è offerto di portare la torta, ma Lisa non l’ha degnato di una risposta. Mentre salivano, Nino è rimasto indietro, pronto a sorreggere Lisa se la mano le fosse scivolata sulla balaustra. Ora aspetta schiacciato contro la parete, come per non essere d’intralcio.

Lisa esita davanti al battente a forma di leone. Quando si decide a bussare, il pianoforte che li ha accompagnati dall’ultima rampa si ferma. Nino tira su col naso e Lisa lo fulmina con lo sguardo.

«Sì?» dice una voce.
«Ho portato una torta.»
«Chi parla?»
Lisa fa un passo indietro. «Signora Ada, sono io.» Si alza sulle punte e solleva la scatola, riciclata da una pasticceria. «Ho portato una torta.»
Il leone soppesa Lisa per qualche istante.
«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»

«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»

«Che torta?»
Lisa si tocca d’istinto la gamba storpia. «Una torta di mele, la preferita della signora Vittoria…»
«Quale ricetta?» Un’altra voce.
«La solita, signora Vittoria, la sua preferita…»
«Gli ingredienti, per cortesia.»
«Le mele, le renette buone, le ho prese al mercato…»
«Ci descriva come l’ha fatta.»

Lisa lancia un’occhiata a Nino. Lui però non conosce la ricetta: Lisa l’ha sbattuto fuori dalla cucina, la torta non l’ha neanche vista. Il silenzio dietro la porta la incalza. Lisa parla senza ingarbugliarsi troppo.

«... Allora ho messo 220 grammi di farina, la ricetta diceva 250 ma non ne avevo più…»
«220?» ripete la signora Ada.
«No» dice la signora Vittoria. «Così non va».
«Se solo la assaggiaste…»
«Signora Lisa» interviene un’altra voce. «Perché venire fin qui se non ha seguito la ricetta per filo e per segno?»
«Signora Celeste, la prego…»

Uno scatto annuncia la chiusura dello spioncino. Lisa insiste che potrebbero mangiarla in salotto, quando Celeste ha finito di esercitarsi al pianoforte, Vittoria di fare l’uncinetto e Ada di leggere le sue poesie, proprio come un tempo. Nessuna risposta.

Nino se le immagina guardare a turno dallo spioncino, in piedi su uno sgabello, per poi sparire con passo felpato nei meandri dell’appartamento.

«Posso avere una fetta?» chiede dopo un po’.
Lisa scrolla le spalle.
La torta, abbandonata a terra, si è attaccata al coperchio. Nino stacca un pezzo con le mani.
«È buona» dice leccandosi le dita. «Se solo l’avessero provata…»

Lisa contempla prima il pasticcio che era la sua torta, poi Nino. «Mi fai schifo, lo sai?» E inizia a scendere zoppicando senza di lui.

bio dioguardi

Andrea Dioguardi è un abruzzese perduto a Colonia. Di mestiere traduce parole altrui, ma ogni tanto ne scrive anche di sue. Ha pubblicato un racconto su Fantasy Magazine.