Un racconto di Marcello Guardo
Numero di battute: 2106
Dietro la parete zigrinata ci sono i ragazzi, e tutti urlano, alcuni forte nelle mie orecchie, altri piano, solo per parlare. Urlano come animali, liberi nell’ombra Sono vicini finché una mano cade sulla mia spalla e allora mi faccio avanti e il mio passo echeggia sotto il tetto di stelle esplosive; il mio passo mi rimbalza nel casco, mi attraversa le tempie e discende attraverso la gola. Il mio passo calpesta il pavimento dentro di me, e le assi del mio stomaco scricchiolano sotto gli stivali, i bordi si allargano e grattano le pareti.
È una notte chiara, mi copro dalla pioggia, le corro incontro. I giovani ballano liberi, saltano e ridono, mentre io sto zitto, in ascolto, a studiare i graffi sui miei occhi, e mi sforzo di non sudare per non perdere la presa sul bastone.
«Non sto bene chiuso nel mio stomaco.»
Tra poco smetterà di piovere e io fremo per uscire: non sto bene chiuso nel mio stomaco, troppo magro per farci stare il gigantesco urlo che mi scuote. Le gambe si stringono l’una all’altra Uniti! Uniti! le mani sudano e il casco s’indurisce e mi si aggrappa ai capelli, il giubbotto mi spezza la schiena, il tuono agita ancora i lampioni.
Tiro il bastone contro l’ombra e quella mi morde invitandomi a tirarlo ancora Siamo arrivati, non cadere a confidare che non si spezzerà. Torna la pioggia e io mi ci immergo come un bambino contro le onde del mare: il nemico è tra i flutti. Presto i miei tendini sotto la tuta bruceranno, i miei occhi piangeranno tagliati dalla luce, la mia testa premerà forte sul casco crepandosi come un uovo di porcellana. Mi tirano indietro Non cadere, Cristo! la marea si alza e trattengo il respiro. Continuo a lanciare il bastone e non cado. È importante che io non cada. Un urlo, l’esplosione della Beretta 92 semi-automatica d’ordinanza, il mare urla tutto intero. Tolgo la visiera: le ombre tornano ragazzi, le grida tornano pianti, le danze tornano braccia e gambe, strette contro un corpo steso sulla strada.
C’è chi arretra, c’è chi si lancia, mosso da un terrore antico, contro la membrana di carne che ora crepita in terra. Torno nel mio stomaco Per oggi è finita. Per oggi è finita.
Marcello Guardo (Palermo, 1996) palermitano di nascita, figlio illegittimo dell’Etna. Dopo essersi formato alla Scuola Holden, diventa sceneggiatore per Biennale Architettura 2022. È attualmente autore al montaggio per un noto programma televisivo a Milano. Ha pubblicato su Blam!, retabloid di Oblique e Voce del Verbo e sta per terminare il suo primo romanzo.
Un racconto di Bea Meneghetti
Numero di battute: 2497
Tieniti stretti gli amici, ma ancora di più i nemici. Io la nemica ce l’avevo in casa.
Chiara era la mia coinquilina a Bologna, nella casa che papà mi aveva regalato per lasciarmi studiare in pace. Io frequentavo Giurisprudenza, lei Comunicazione-per-qualcosa-di-qualcosa, una di quelle triennali che si prendono anche da bendati. Mi aveva confessato che non passava gli esami e non so come non le avessi riso in faccia. Si era giustificata: lavorava in pizzeria sei sere a settimana ed era troppo stanca per concentrarsi. Le avevo detto che non la giudicavo, ognuno ha i suoi tempi. Più sono stupide e più si ostinano.
Chiara non lavava mai i piatti, spargeva grasse chiazze sui fornelli e schizzava sugo appiccicoso sulle mattonelle. Il lavandino era stracolmo di posate unte e pentole incrostate, mentre il pavimento era sudicio di impronte. Il fetore di fumo aleggiava in una nube soffocante, mi s’incollava ai vestiti, mi perseguitava.
«Io la nemica ce l’avevo in casa.»
La spazzatura la gettava quando glielo ordinavo. Nel secchio dell’umido ristagnava una patina viscida, colonia di vermi che infestavano poi le pareti in lente strisciate. A guardarli avevo i conati. Non chiudeva la cucina: la puzza di pesce, cipolla o broccoli si insinuava sotto la mia porta e penetrava nella serratura in aliti persistenti. Macerava le lenzuola e impregnava il cuscino.
Sbottavo, e mi fissava con occhi vuoti. Urlavo, e mi rispondeva okay, scusa, lo farò. Mi prendeva per il culo senza vergogna. Sognavo di spaccarle il naso contro il ripiano di marmo. Mamma si raccomandava di essere paziente, che da contratto non potevamo cacciarla.
Volevo essere ripagata: le mangiavo i biscotti vegani, le rubavo gli assorbenti, le finivo lo shampoo. Pianificavo vendette notturne, disseminando piccoli disagi in punta di piedi. Nelle mie incursioni aprivo cassetti e scatole, guardandomi alle spalle, guidata dalla luce del cellulare. Avevo di nuovo il controllo, avevo un segreto. Desideravo vederla confusa, turbata, incazzata. Non sembrava però accorgersi della mia guerriglia domestica.
Un giorno non trovai le forbici. Cercai ovunque, ma erano sparite. Passai davanti al suo bagno e gettai uno sguardo: eccole, nel bidet. Entrai. Erano coperte di peli. La schifosa. La rabbia sorse come il gas in una Coca shakerata. Il tappo stava per saltare.
Corsi in cucina, spalancai il frigo, afferrai il mio cartone di latte. Tremando, lo versai nella sua bevanda alle mandorle.
La mattina dopo lei era su un’ambulanza e io a scrutare senza fiato il muro.
Bea Meneghetti è una studentessa venticinquenne a cui piace scrivere racconti e arrampicare su roccia.
Un racconto di Matteo Manzonetto
Numero di battute: 2334
«Te conto ’na storia di quelle che se se conta de notte davanti al fogo par farse paura. Però, però… questa xe ’na storia vera, ma non la trovi né su l’internet né da nessun’altra parte.»
Le parole rimbalzano dentro al cranio, rimbombano nella stanza. Mi sto risvegliando ma non ricordo di essermi addormentata. L’ultima immagine è di quando sono salita sull’auto di un tipo conosciuto al bar. Le palpebre si separano in un velo denso. Voglio sfregarmi gli occhi ma le mani non riescono a muoversi. Sono allacciate alla sedia. Tremo, non capisco se è un incubo.
«Ghe gera ’na volta, anzi ghe xe ’ncora, Bepi Crosato. Un tipo da bar e ciaccole e partite a scopa, bel omo, sinquant’anni da león, sempre vestito come un siór, un Casanova sempre con ’na tosa diversa. ’Na sera incontra la Luana: ’na bea mora co do gran tette, gran beverina, e… come se dixe…? Dis-ini-bi-ta! La tipa che a Bepi el ghe fa proprio vegnar voja de far le robe sporche.»
«Ghe gera ’na volta, anzi ghe xe ’ncora, Bepi Crosato.»
La figura parla in controluce, ne colgo la sagoma, è protesa verso di me. Un odore di dopobarba muschiato si mischia alla puzza di umido stantio dello scantinato. Ho la nausea. Faccio per alzarmi: le gambe non si muovono. Guardo in giù: sono incatenate alla sedia, sembrano di un’altra.
«Insomma, bevi un spriss, bevi do’, bevi tre, la Luana la monta in macchina e Bepi la porta casa. Ma miga in leto, no no, Bepi la Luana la porta da basso. Dove el tien le robe che ghe piaxe de pi’: el vin e le femene. Te se’, a Bepi ghe piaxe aver sempre na bea femena intorno, e quando che ghe gira, farghe queo chel voe.»
Il cuore mi batte in petto, nel collo, nelle tempie, nei timpani. Dietro all’uomo, contro la parete della stanza, una macchia sfocata rosa pallido. Contorni via via più nitidi delineano braccia allargate come un Cristo in croce. Una chiazza scura di capelli scende da una testa abbandonata e ciondolante su grandi seni macchiati di lividi. Gambe nude e carnose stanno piegate sotto il peso del corpo inerte. Un mugolio straziato proviene da quella massa di carne martoriata.
Il terrore esplode e dilaga, urlo soffocata dalla benda che mi copre la bocca, mi dimeno senza speranza finché esausta mi fermo. Il petto sussulta in singhiozzi incontrollabili. Finalmente la mano dell’uomo mi solleva gentilmente il mento.
«E stasera Bepi el ga pensa’: no voria che la Luana se sentisse sola.»
Matteo Manzonetto, classe ’78 di Castelfranco Veneto, più di vent’anni fa si è trasferito a Bruxelles in cerca di fortuna. Ha un passato da giornalista, fotografo, insegnante di italiano, impiegato in una ONG. Dal 2011 lavora per l’Unione Europea.
Un racconto di Antonio Alberti
Numero di battute: 2450
È peculiarità delle città contemporanee dotarsi di contesti residenziali post-industriali in cui concentrare ricchezze ingenti. Si tratta di esempi virtuosi di rigenerazione urbana popolati da soggetti originali e dotati di eccezionale cultura. Si parla di chiarissimi professori, artisti in erba, visionari pre-pensionati, sperimentatori esistenziali e templari del relativismo morale.
Uno di questi luoghi – forse il più leggendario di tutti – è “la Fichera”, ex-conceria trasformata in tempio del sollazzo e dei princìpi. Le poche fonti attendibili raccontano che qui si viva un carnevale perpetuo, ricco di feste e lodevolissime iniziative civili. Non è chiaro, tuttavia, dove la Fichera si trovi e nemmeno si ha la certezza che esista o sia mai esistita. Sul suo conto, a dirla tutta, ci sono solo pettegolezzi da salotto e testimonianze quasi verificate.
«Uno di questi luoghi – forse il più leggendario di tutti – è “la Fichera”.»
Fra i commentatori che godono di un certo credito, c’è tale Gioacchino Visconti-Rubens, rampollo sterile di una celebre famiglia patrizia. Il Visconti-Rubens scrive del suo soggiorno presso la Fichera nel volume auto-pubblicato Conversazioni cross-temporali con Epicuro. Senza riportare con esattezza date e indicazioni geografiche, l’autore fa menzione di una grandiosa celebrazione di mezza estate: «… con caroselli da mane a sera, con colazioni pantagrueliche, con balli tra ninfe discinte e giovani androgini avvolti in fragranze d’oppio».
Attraverso la cerimonia pare si voglia manifestare un ambiguo «diritto a far quel che si vuole», in modo che i bimbi che vivono là possano «apprendere la bellezza delle diversità, dei costumi e dei corpi». La cronaca – sul punto generosa – riporta di uomini nudi e villosi che danzano sotto il sole; di persone narcotizzate che esplorano fra le siepi; di alcune ragazze che pregano la Madonna, che piangono, si baciano e mangiano gelato alla nocciola fino a indurre una dissenteria irrefrenabile, «… massimo atto di espiazione dei peccati occidentali…».
Sempre secondo il Visconti-Rubens, questa festa dei sensi si concluderebbe spesso con un decesso, a volte per shock termico, ma più di frequente per arresto respiratorio e infarto del miocardio. Malgrado la dolorosa circostanza, la comunità non interpreterebbe queste morti come una tragedia a cui porre rimedio. Anzi, per quanto sfortunato, il fenomeno sarebbe necessario per il prestigio stesso del luogo e, dunque, per giustificare un canone d’affitto che supera i venti euro al metro quadro.
Antonio Alberti nasce ad Abbiategrasso (MI) nel 1986. Nel 2005, inizia un percorso di studi in Scienze Politiche che si conclude con un dottorato in ambito filosofico sulla praticabilità delle prescrizioni politiche e degli orizzonti idealisti. In ambito narrativo, pubblica racconti in riviste a volumi collettivi e, nel 2019, la raccolta Non è un problema grave. Aspettano di decidere (Santelli Editore). Dal 2016, lavora come copywriter e consulente di comunicazione.
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