Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Gennaio 2024


racconto vasco d'agnese

in pullman

Un racconto di Vasco d’Agnese
Numero di battute: 2500

Febbraio, sei e quaranta del mattino, poco prima del Carnevale. Il sole è sorto da poco, ma dalla fermata ancora non si vede. Il cielo è limpido, pulito, di quel blu elettrico delle albe invernali. Lui sale in pullman. Sale e lei è lì, a due passi di distanza, come ogni lunedì. Deve solo fermarla, con una scusa qualunque.

In realtà lei già lo conosce: è quello di via Altamura, l’ultima fermata prima dello stadio, tre dopo la sua. Spesso si scambiano sguardi, qualche volta un sorriso – quindi magari la scusa è superflua. Basterebbe un “buongiorno, come va?” oppure, meno formale “ciao, come va? Da un po’ volevo parlarti...”.

«Lei – è molto probabile –
lo aspetta.»

Lei – è molto probabile – lo aspetta. Lo aspetta e lo riconoscerà. Risponderà sorridendo, inclinando leggermente la testa. Lui imbastirà una chiacchiera, e lei non scenderà quando deve, si dimenticherà, o forse lo farà apposta. E anche lui non scenderà alla solita fermata, anche lui si dimenticherà, o forse anche lui lo farà apposta, e a un certo punto scenderanno insieme. Lui indicherà un bar e prenderanno un caffè, seduti al tavolino, nel via vai di studentesse, ragazzi, papà che comprano brioche per i figli, e lei arriverà tardi al lavoro – lui anche peggio.

Ne rideranno, e prima di lasciarsi lui la inviterà al cinema, quella sera stessa, o magari il giorno dopo. Si scambieranno i numeri e condivideranno messaggi, usciranno insieme, ancora e ancora, parleranno di case, viaggi, quadri, musica, si baceranno e faranno l’amore. Prenderanno l’auto e andranno in costiera, fitteranno casa al mare, e vedranno tramonti, onde, alberi, asfalto, piogge in spiaggia e mattine d’autunno. Penseranno di voler vedere l’alba dal terrazzino, ma si sveglieranno sempre tardi, ridendo, e lui preparerà la colazione e le chiederà di sposarlo, e lei lo abbraccerà.

Tinteggeranno casa verde e azzurro ed il tempo scorrerà rapido. Lui imparerà a fare foto – finalmente! – le accarezzerà il viso mentre lei le guarda, di sera, e dopo avere scelto le più belle le ordineranno in un album, e avranno due figli, sicuri, piantati nel mondo come lui non è mai stato, e col tempo anche i capelli si imbiancheranno e i passi saranno più lenti, incerti, le giornate più brevi e ogni attimo da quel momento in poi sarà l’ultimo della vita perché sarà la vita, compatta e luminosa, e niente più da chiedere, da desiderare, ogni cosa intera, cerchi di mare inanellati a riva, e nessuno vedrà la morte dell’altro perché così decideranno e così sarà.

Ma lui non ha scuse, né parole, né sguardi complici. Arriva la sua fermata e scende. Scende e basta.

Vasco d’Agnese

Vasco d’Agnese è nato a Napoli nel 1970, dove ha sempre vissuto. Insegna Filosofia dell’educazione all’università Luigi Vanvitelli, e ha coltivato la passione per la scrittura in forme diverse.

Frighetto Gianandrea

visoni

Un racconto di Gianandrea Frighetto
Numero di battute: 2421

Avevo tredici anni la prima volta che vidi un visone.
Ero con mio cugino, un armadio biondo pannocchia con un sorriso furbesco, e la sua compagnia. Ci aggiravamo tra le campagne dove il dialetto comandava pure sulle vetrine dei negozi.

«Gheto mai fumà?» mi domandò qualcuno.
«Certo» dissi al gruppo. «Philips, Marlboro, Camel» elencai, fregate a ogni sorta di parentela.
«Ma non visoni» commentò il cuginetto.

Aveva due anni in meno, come tutti quelli della banda. Tra le dita teneva un ramoscello striato come una tigre, dal profumo esotico. Un forellino sottile quanto uno stuzzicadenti lo passava parte per parte.

«Gheto mai fumà?»

«No ghi nemo bastanza» se ne uscì quello ribattezzato Carega.
«Ndemo allora» ruggì il cugino, la bici stretta sotto le manone.

Salii con lui, in piedi sul portapacchi. In testa al gruppo zigzagammo tra case diroccate, campi di granoturco, pisciammo sui muri, qualche petardo volò contro la canonica. Maledizioni e parolacce al don e alle sue messe.

Prendemmo un sentiero sterrato che terminò in una fitta boscaglia.
«Di qua» disse il cugino, che mollò la bici e si lanciò armato di bastone.
In mezzo alla selva, un groviglio di liane infestava un vecchio faggio. Il visone sembrava un lungo serpente avvolto sulla preda.

I ragazzi si misero all’opera cercando i rami più secchi. Tastavano e annusavano con le lame pronte. Ogni tanto una fiammella illuminava le loro facce.

Il cugino ne accese uno e poi me lo passò in una nuvola di fumo. Inspirai quell’aroma selvatico, dolce e spigoloso allo stesso tempo.
«Sei dei nostri» disse con un risolino. Parlava in italiano con me.

Intanto dal sentiero era arrivata un’altra compagnia, qualcuno sussurrò che erano quelli di terza. Avevano la mia età eppure sembravano più duri e cattivi.
Volarono parole, qualche culo smutandato al vento, ma nulla più.

Ci rimettemmo in sella e mi spiegarono che i visoni erano terreno di tregua. Un po’ per ciascuno e poi se le sarebbero date fuori da scuola o a calcio.
Il resto del bottino ce lo fumammo strada facendo, fino all’orto di zia. Le caramelle alla menta lavarono via le malefatte, prima dei saluti.

Non tornai più in campagna, non cercai più visoni con mio cugino e la sua banda. Qualche anno dopo smisi pure con le sigarette. Ci sono volte però in cui scendo in cantina e mi siedo sulla vecchia poltrona. Tiro fuori quel primo mozzicone di visone e lo cicco con gli occhi chiusi, in bocca il dolce sapore di poter essere scoperto.

frighetto gianandrea bio

Gianandrea Frighetto nasce a Bassano del Grappa, cresce a Rosà e corre tra le calli veneziane per laurearsi in Economia e Beni Culturali. Lavora in una cartotecnica, legge e scrive da sempre. Qualche racconto è stato pubblicato tra concorsi e riviste. Nel 2022 esce il suo primo romanzo, Santa Kultura (La Ruota) e diventa papà. Ha trent’anni in difetto.

racconto rudi capra

ichi

Un racconto di Rudi Capra
Numero di battute: 1343

Ichi Tohaku fu un illustre matematico. Visse tutta la vita a Sendai, in una casa senza luce elettrica né riscaldamento.

Comprese da giovane che il problema fondamentale della natura umana è quello della singolarità e passò una vita a cercare di risolverlo. Una sola nazione, una sola religione, una sola donna, una sola vita e una sola morte. La natura umana è schiacciata in quest’unità soffocante e Tohaku cercò una teoria matematica in grado di spezzarla.

Una vita nomade vissuta in tanti luoghi e tante donne, con tanti futuri a disposizione in notti e giorni paralleli.

In una fredda primavera del 1964, mentre la gatta miagolava alla porta per entrare, Ichi trovò la soluzione. Applicandola in ambito fisico, avrebbe biforcato la propria esistenza lanciando sé stesso verso una serie inarrestabile e potenzialmente infinita di biforcazioni.

«Attese.
Invano.»

Attese. Invano.

Controllò e ricontrollò i calcoli, ma risultavano corretti.

Infine comprese: l’unità fondamentale della sua persona era stata scissa, ma Ichi era quello rimasto al di qua della biforcazione, mentre l’altro Ichi era stato sparato verso un futuro ramificato ed espanso. Senza alcuna possibilità di incontrarsi.

Ichi era rimasto nell’unità angusta della stanza rettangolare con il tatami srotolato, la gatta che miagolava fuori dalla porta e un piovasco leggero che cadeva dal cielo bianco.

rudi capra bio

Rudi Capra è ricercatore in Filosofie dell’Asia orientale e critico cinematografico, attualmente a Torino. Ha diverse pubblicazioni all’attivo e due monografie, una sul pensiero interculturale e una sul cinema di Nicolas Winding Refn. Suoi saggi e racconti sono apparsi anche su L’Indiscreto, Risme, Singola, Digressioni, Le parole e le cose.

zannini emma racconto

a luce spenta

Un racconto di Emma Zannini
Numero di battute: 2495

Da bambina correva nella via sterrata, e cieca, che separava i terreni di B. e C., vecchi contadini, e con lei c’erano sempre tre maschi della sua stessa età, cugini fra loro, e la sua sorellina, tremenda forse più di tutti. Erano, insomma, una banda.

Per quella strada ci passava solo, e raramente, qualche trattore, a volte le bestie, e in vista non c’erano case, solo distese infinite di erba che terminavano nel cielo immenso. Tutto era a disposizione loro e dei loro giochi. Soprattutto, gli piaceva stare attorno al vecchissimo albero di castagno, solitario, nel bel mezzo del terreno di B., e l’avevano designato la loro base.

Da lì la stradina si vedeva ancora, ma dovevano comunque stare attentissimi: se B. li avesse beccati sul suo terreno, sul suo castagno, sulle sue balle di fieno, li avrebbe scacciati coi cani, furibondo, così la leggenda diceva. Lei, però, ricordava una volta che avevano sentito dei cani in avvicinamento, ed era stato il panico. Non avevano avuto tempo di scappare, e si erano arrampicati tutti sull’albero, issando la sorellina un po’ per le spalle un po’ per il braccio, nascondendosi fra i rami.

«Erano, insomma,
una banda.»

Sì, era il vecchio contadino con i due vecchi cani. Erano rimasti appollaiati in silenzio, pregando. Quando poi se ne era andato ed erano scesi dall’albero, erano tutti eccitati da come gliel’avevano fatta. Eppure a lei – aveva taciuto però, perché avrebbero detto che se l’era inventato – eppure a lei era parso che B., passando vicino al castagno, avesse incrociato i suoi occhi, e si fosse girato dal lato opposto, l’ombra di un sorriso.

Quel giorno, quella primavera, erano stati loro a trovarlo. Da lontano sembrava un bozzolo enorme, appeso al castagno, e sua sorella era corsa lì ridendo sguaiata pensando fosse un animale brutto. Poi aveva urlato. Pendeva dall’albero con una sorta di dolcezza, scosso appena dal vento, come una carezza. Gli altri erano corsi a chiamare a casa, solo lei era rimasta lì impietrita: aveva alzato gli occhi al volto di lui, livido su quel cielo azzurro azzurro.

Erano andati a guardare la processione della bara dalla chiesetta al cimitero, la seguiva solo qualche vecchia velata di nero. Tutti, anche il prete, reggevano candele spente. Più tardi, inquieta, aveva chiesto perché, e suo padre le aveva risposto scuro: «Non c’è luce, di là, per chi muore così».

Ancora oggi, quando ritornava al paese, andava a posare fiori su quella tomba, sola, fuori dal cimitero, senza croce. Oltre i suoi, non ne aveva mai trovati altri.

zannini emma

Emma Zannini è laureata in Lettere moderne all’Università di Padova. Si trasferisce a Bologna dopo aver lavorato in un giornale a Roma, consegue la laurea in Italianistica nel 2021 e da allora alterna il suo tempo fra scrittura e insegnamento.