Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Marzo 2017


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il padre

Un racconto di Francesco Bolognesi
Numero di battute: 2498

Tutti i bambini del parco giochi improvvisamente diventarono identici a suo figlio. Lui se ne accorse girandosi e vedendo che c’erano due bambini che erano identici l’uno all’altro e vestiti allo stesso modo: maglietta bianca con faccia di Spiderman con macchia di moccio e pantaloncini blu sporchi d’erba; stavano scivolando uno dietro all’altro per uno scivolo lungo e largo se percorso da loro. Si passò una mano in testa, retaggio dei tempi in cui aveva i capelli. Guardandosi intorno vide altri suo figlio, intenti a spingersi sull’altalena a vicenda, a rincorrersi per il prato; uno si stava arrampicando su un albero. Chiese ai due bambini più vicini a lui come si chiamavano e risposero Andrea. Chiese di vedere le mani, su entrambe c’era la piccola cicatrice di appena un mese prima.

Provò a chiamarlo, suo figlio, magari avrebbe risposto. Disse: Andrea, andiamo a casa? E tutti gli risposero da punti diversi: no, è ancora presto, ti prego papà!

«Guardandosi intorno vide altri suo figlio.»

S’immaginò di dover fare il padre di tutti quei bambini: erano tanti.
Pensò di prenderne uno e andarsene, se davvero erano uguali non era un problema. Si avvicinò a quello che era più vicino e lo prese per mano, il figlio cercò di fare come se non esistesse, attento solo a giocare con due bastoni.
Dài, dobbiamo andare a casa che la mamma ti aspetta, disse il padre.
Il bambino allora si girò e guardò il padre e poi convintosi si incamminò, tenendolo per mano. Gli altri bambini si accorsero che il padre se ne stava andando con Andrea e incominciarono a seguirlo anche loro. Vogliamo venire anche noi dalla mamma, dicevano. Anche noi! Sì!

Il padre si girò e vide i bambini corrergli incontro e circondarlo, tutti volevano la sua mano, poterla stringere. Lui se le guardò, erano grandi, ma non abbastanza. Disse: Facciamo una gara a chi arriva prima a casa da mamma. Va bene?

I bambini allora alzarono entrambe le mani, strette in pugni, sincronizzati, e all’unisono dissero: SÌ! Il padre corse, intorno a lui c'erano tutti i bambini con le stesse labbra e gli stessi occhi. Accelerò un po’ aumentando il passo e guardandosi dietro vide che alcuni facevano più fatica, avevano il fiatone e si piegavano in due. Andò più forte ancora e mentre facevano la strada di casa i bambini diminuivano, rimanevano indietro e poi sparivano, uno dopo l’altro, riducendosi alla fine, quando arrivarono dalla mamma, a uno solo, che superò il padre con la maglietta a chiazze di sudore. Il padre lo vide girarsi e aspettarlo per porgergli la mano.

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Francesco Bolognesi (1994) è nato in provincia di Ferrara. Diplomato alla Scuola Holden, studia regia alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. Ha pubblicato un racconto in Questo libro si può anche leggere (Autori riuniti, 2016), scrive per Undici.

Diego Rossi - racconto

giorni di lupa

Un racconto di Diego Rossi
Numero di battute: 2495

Fu N* per primo a parlarmi della lupa. L’aveva vissuta da giovanotto a Mazara, dove s’imbarcava su una paranza già stinta allora e più volte ricalafatata. Giungeva inavvertita a frapporsi alla linea di costa, aggravando le manovre d’attracco ai pontili e costringendo gli equipaggi a prolungati stalli. Ormeggiati in quell’acquerugiola fetida che pareva materializzarsi dall’immota superficie marina, i pescatori si lisciavano le barbe inquieti. Taluni lanciavano formidabili «Oooh» alle imbarcazioni che navigavano alla cieca, e delle volte qualcuno suonava la brogna, liberando un lugubre lamento in quel latte d’opale che s’era fatto il crepuscolo. Leggende narravano di barche inghiottite dalla lupa e mai risputate. Nei miseri abituri, le femmine stringevano al seno la prole quando vedevano tornare la tenebra prima dei mariti.

Tempo dopo mi ritrovai a parlare della lupa con F*. Nel suo primitivo paese, un qualche gomitolo di casupole nei pressi di Letojanni, si manifestava talvolta alle porte dell’estate, affiocando la tersa luce ionica: s’abbuiavano allora i volti degli anziani, e i fanciulli per le strade ammutolivano. «Lupa ppi Santu Vitu, pòi chiùdiri u trappìtu» mormoravano le vecchie sgranando i rosari. La lupa invadeva gli oliveti, martoriando le mignole nel momento cruciale della produzione del frutto: gli spettri della fame e della miseria vagavano dunque liberi in quella lattiginosa condanna sorta dal mare.

Ero rapito dai racconti di un mondo che persisteva solo nella memoria dei vecchi. Nel mio mondo fatto d’informazioni e scienza, la lupa era una semplice nebbia da avvezione, un comune fenomeno prodotto dal passaggio di aria umida e calda sopra la superficie fredda del mare.

«Leggende narravano di barche inghiottite dalla lupa e mai risputate.»

Ma la scienza non mi sostenne nel mio primo incontro con la lupa, un mattino che mi arrampicavo per un sentiero sulle alture di Castellammare. Una densa striscia giallastra aleggiava sulla costa e avanzava a sbuffi verso l’entroterra: i paesi del litorale sparivano sotto quella coltre mentre salivo, e ben presto la misteriosa presenza mi fu addosso. Ciò che provai in quei momenti nelle fauci della lupa non posso tradurlo in parole. C’era dentro come un’emanazione, un odore, o forse un ricordo: qualcosa di antico l’abitava. M’arrestai confuso, appiattendomi contro una parete rocciosa, e attesi che la lupa mi scivolasse di dosso. Quando il mondo si rifece normale, la scienza riprese il suo dominio e io tornai a vivere d’informazioni. Ma non ho più parlato con nessuno della lupa.

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Diego Rossi (1977) vive in Toscana. Nel 2009 ha pubblicato la raccolta di poesie Supernove (ArtEventBook). Nel 2016 ha collaborato alla stesura del libro collettivo Repertorio dei matti della città di Livorno (Marcos y Marcos), e un suo racconto è comparso nell’antologia Obtorto Collo (Valigie Rosse). Collabora con il gruppo elettro-acustico Il Ritorno di Carla.

racconto scuderi alice

il buco

Un racconto di Alice Scuderi
Numero di battute: 2500

Quel maledetto dettaglio. Nella devastazione ancora calda, mi era rimasto solo il particolare più silenzioso. Anche se nulla lo era nella stanza che avevo trovato seguendo l’odore.
Salato, acre, oleoso, così forte da annebbiare i sensi.
Eppure la prima cosa che avevo visto era stata il buco.

«Come il buco?» mi aveva chiesto senza celare la stizza il commissario.
Io non sapevo che dire, le parole mi scivolavano via in rivoli fangosi, si perdevano a valle e io ero rimasta con in mano solo un coltello e l’immagine del buco.
Un po’ sfrangiato ai bordi, ma netto proprio lì dove aveva subito più pressioni.

Cosa avrebbero pensato se gli avessi detto che il mio primissimo pensiero, prima che la visione dell’orrore passasse dai miei nervi ottici alla corteccia e poi alla mano, era stato: «Quante volte ti avevo detto di cambiarle?».

«La prima cosa che avevo visto era stata il buco.»

Portava pantaloni di tweed in inverno, camicie che si stirava perfettamente da sola, si faceva la piega ogni mattina, mentre fuori era ancora buio e io l’aspettavo in cucina con il caffè già pronto. E poi il buco. Io lo sapevo che nonostante tutta la faticosa ricerca della perfezione che le avevo insegnato, non eliminava quel particolare dissonante. Non si vedeva, lo sentiva solo lei, un segnale invisibile agli occhi miei e di suo padre, di una sfida che non avevo capito, almeno fino a quel momento.

Dal buco il mio sguardo si era spostato più su, al suo corpo nudo, appoggiato ad altri corpi nudi: il suo quadro preferito di Bosch aveva preso possesso della stanza. Quella surrealtà disturbante mi aveva assalita, io mi ero solo difesa, tagliando, lacerando la tela viva. Il rosso aveva coperto tutto.

Mi voltai, ma ormai era fatta: ciò che pensavo di sapere s’era sciolto, il ventre in cui pensavo di averla cresciuta si raggrinzì all’istante. Il coltello cadde a terra senza fare alcun rumore.

«Si ricorda cosa ha fatto dopo?» La voce del commissario arrivava distorta, come da una radio non sintonizzata.
«Gliel’ho rammendato, cos’altro potevo fare? Lasciare che la trovassero con il calzino bucato?»

Lo avevo sfilato dal piede ancora caldo, non m’importava sporcarlo di sangue. Dovevo sistemare quell’ultima situazione, il resto era già fatto.
Il commissario mi guardava, muto, giocherellava nervoso con un buco che aveva sul colletto della giacca. Provai pena per lui, un altro disadattato.

«Perché?» mi disse solo.
«Quando il buco è troppo grande, non resta che tagliare tutto.» Mi strinsi al ventre il calzino, sembrava nuovo. Sorrisi, mentre mi infilava le manette.

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Alice Scuderi (1985), lombarda di origine e toscana d’adozione, nasce come biologa ma vuole morire come scrittrice. Scrive racconti brevi che ha pubblicato in diverse raccolte edite da Delos Book, finalista in alcuni concorsi letterari nazionali, non è mai apparsa su riviste prestigiose né ha frequentato scuole di grido. Per questo scrive sul sito Donne Difettose, creato insieme a due amiche scrittrici “difettose” come lei.

oldani racconto claudia

piera ciapa ratt

Un racconto di Claudia Oldani
Numero di battute: 2478

«Ti dico che m’ha tirato per la manica» insisteva mia madre. «Qui, l’ho sentito mentre passavamo qui» diceva, indicando la porta della vicina, la Piera, che aveva fatto dello strattone alla manica il suo marchio di fabbrica – di solito per avanzare richieste al malcapitato di turno. Peccato che fosse morta il giorno prima.

Alta, dalla figura torva, la Piera era un’istituzione nel palazzo. In quel bilocale posto proprio vicino ai bagni comuni era arrivata nel ’60; e da lì non si era più spostata, nonostante si lamentasse in continuazione del tran tran sul suo ballatoio e del baccano in cortile.
Il suo “vi buco il pallone” aveva terrorizzato generazioni. Nemmeno io mancavo all’appello: non appena facevo rimbalzare la palla sul cemento, lei si precipitava fuori a lamentarsi. Pareva le impedissi di vedere la televisione; eppure era più il tempo che passava affacciata alla ringhiera, che quello in salotto. Insomma, a me quella vecchia faceva paura, e ora mia madre mi stava informando che il suo fantasma le aveva strattonato la manica. La cosa non mi piaceva.

«Ma va’» le dicevo io, «com’è possibile, ché la Piera è morta ieri?»
«La signora Piera» mi correggeva. «E se ti dico che l’ho sentito, è così»  si impuntava.

«la minga voruu
el lutto sul porton.»

Non c’era stato verso di farle cambiare idea: aveva marciato fino in portineria per chiedere quando si sarebbe tenuto il funerale.
«Eh, ha saputo?» aveva chiesto la portinaia, indaffarata a comporre un numero di telefono, «guardi, meglio, così ne ho una in meno da informare.»
Mia madre non capiva: «Scusi, in che senso?».
«Eh» le rispondeva la portinaia, «la minga voruu el lutto sul porton.»
«Ma la Piera?» chiedeva mia madre, mentre bloccava sul nascere il mio “signora Piera” di correzione con un’occhiataccia.
«Eh, e chi altri? Lee, propri lee! Da anni che dice che quand l’è il sò moment non vuole il lutto sul portone, e adès è tutta la mattina che mi tira scema.»
«Non la seguo» continuava mia madre.
«Mi tira la manica, mi tira!» perdeva la pazienza la portinaia, strattonandosi una manica da sola, mentre con la spalla si teneva la cornetta attaccata all’orecchio. «E adès devo chiamare tutti gli inquilini, vun per vun, a dare la notizia, o quella mica mi lascia in pace.»
Mia madre e io ci guardavamo allibite.
«La me scusa» concludeva la portinaia, chiudendo il vetro della guardiola, «finisco le telefonate.»

Mentre ci allontanavamo dall’androne, senza il coraggio di parlare, la sentivamo che urlava, da sola: «Piera, ma va’ a ciapa’ i ratt!».

racconto oldani claudia

Claudia Oldani (1987) è nata a Milano in una casa di ringhiera, ma vive a Londra in un Victorian Terraced. Ha scritto e scrive per svariate pubblicazioni online, tra cui STREAM! magazine, e segue tutti i progetti editoriali di Foro Studio. Altri suoi racconti sono usciti su Lahar, Squadernauti, inutile, Verde e Abbiamo le Prove.