Un racconto di Bea Meneghetti
Numero di battute: 2497
Tieniti stretti gli amici, ma ancora di più i nemici. Io la nemica ce l’avevo in casa.
Chiara era la mia coinquilina a Bologna, nella casa che papà mi aveva regalato per lasciarmi studiare in pace. Io frequentavo Giurisprudenza, lei Comunicazione-per-qualcosa-di-qualcosa, una di quelle triennali che si prendono anche da bendati. Mi aveva confessato che non passava gli esami e non so come non le avessi riso in faccia. Si era giustificata: lavorava in pizzeria sei sere a settimana ed era troppo stanca per concentrarsi. Le avevo detto che non la giudicavo, ognuno ha i suoi tempi. Più sono stupide e più si ostinano.
Chiara non lavava mai i piatti, spargeva grasse chiazze sui fornelli e schizzava sugo appiccicoso sulle mattonelle. Il lavandino era stracolmo di posate unte e pentole incrostate, mentre il pavimento era sudicio di impronte. Il fetore di fumo aleggiava in una nube soffocante, mi s’incollava ai vestiti, mi perseguitava.
«Io la nemica ce l’avevo in casa.»
La spazzatura la gettava quando glielo ordinavo. Nel secchio dell’umido ristagnava una patina viscida, colonia di vermi che infestavano poi le pareti in lente strisciate. A guardarli avevo i conati. Non chiudeva la cucina: la puzza di pesce, cipolla o broccoli si insinuava sotto la mia porta e penetrava nella serratura in aliti persistenti. Macerava le lenzuola e impregnava il cuscino.
Sbottavo, e mi fissava con occhi vuoti. Urlavo, e mi rispondeva okay, scusa, lo farò. Mi prendeva per il culo senza vergogna. Sognavo di spaccarle il naso contro il ripiano di marmo. Mamma si raccomandava di essere paziente, che da contratto non potevamo cacciarla.
Volevo essere ripagata: le mangiavo i biscotti vegani, le rubavo gli assorbenti, le finivo lo shampoo. Pianificavo vendette notturne, disseminando piccoli disagi in punta di piedi. Nelle mie incursioni aprivo cassetti e scatole, guardandomi alle spalle, guidata dalla luce del cellulare. Avevo di nuovo il controllo, avevo un segreto. Desideravo vederla confusa, turbata, incazzata. Non sembrava però accorgersi della mia guerriglia domestica.
Un giorno non trovai le forbici. Cercai ovunque, ma erano sparite. Passai davanti al suo bagno e gettai uno sguardo: eccole, nel bidet. Entrai. Erano coperte di peli. La schifosa. La rabbia sorse come il gas in una Coca shakerata. Il tappo stava per saltare.
Corsi in cucina, spalancai il frigo, afferrai il mio cartone di latte. Tremando, lo versai nella sua bevanda alle mandorle.
La mattina dopo lei era su un’ambulanza e io a scrutare senza fiato il muro.
Bea Meneghetti è una studentessa venticinquenne a cui piace scrivere racconti e arrampicare su roccia.
Un racconto di Matteo Manzonetto
Numero di battute: 2334
«Te conto ’na storia di quelle che se se conta de notte davanti al fogo par farse paura. Però, però… questa xe ’na storia vera, ma non la trovi né su l’internet né da nessun’altra parte.»
Le parole rimbalzano dentro al cranio, rimbombano nella stanza. Mi sto risvegliando ma non ricordo di essermi addormentata. L’ultima immagine è di quando sono salita sull’auto di un tipo conosciuto al bar. Le palpebre si separano in un velo denso. Voglio sfregarmi gli occhi ma le mani non riescono a muoversi. Sono allacciate alla sedia. Tremo, non capisco se è un incubo.
«Ghe gera ’na volta, anzi ghe xe ’ncora, Bepi Crosato. Un tipo da bar e ciaccole e partite a scopa, bel omo, sinquant’anni da león, sempre vestito come un siór, un Casanova sempre con ’na tosa diversa. ’Na sera incontra la Luana: ’na bea mora co do gran tette, gran beverina, e… come se dixe…? Dis-ini-bi-ta! La tipa che a Bepi el ghe fa proprio vegnar voja de far le robe sporche.»
«Ghe gera ’na volta, anzi ghe xe ’ncora, Bepi Crosato.»
La figura parla in controluce, ne colgo la sagoma, è protesa verso di me. Un odore di dopobarba muschiato si mischia alla puzza di umido stantio dello scantinato. Ho la nausea. Faccio per alzarmi: le gambe non si muovono. Guardo in giù: sono incatenate alla sedia, sembrano di un’altra.
«Insomma, bevi un spriss, bevi do’, bevi tre, la Luana la monta in macchina e Bepi la porta casa. Ma miga in leto, no no, Bepi la Luana la porta da basso. Dove el tien le robe che ghe piaxe de pi’: el vin e le femene. Te se’, a Bepi ghe piaxe aver sempre na bea femena intorno, e quando che ghe gira, farghe queo chel voe.»
Il cuore mi batte in petto, nel collo, nelle tempie, nei timpani. Dietro all’uomo, contro la parete della stanza, una macchia sfocata rosa pallido. Contorni via via più nitidi delineano braccia allargate come un Cristo in croce. Una chiazza scura di capelli scende da una testa abbandonata e ciondolante su grandi seni macchiati di lividi. Gambe nude e carnose stanno piegate sotto il peso del corpo inerte. Un mugolio straziato proviene da quella massa di carne martoriata.
Il terrore esplode e dilaga, urlo soffocata dalla benda che mi copre la bocca, mi dimeno senza speranza finché esausta mi fermo. Il petto sussulta in singhiozzi incontrollabili. Finalmente la mano dell’uomo mi solleva gentilmente il mento.
«E stasera Bepi el ga pensa’: no voria che la Luana se sentisse sola.»
Matteo Manzonetto, classe ’78 di Castelfranco Veneto, più di vent’anni fa si è trasferito a Bruxelles in cerca di fortuna. Ha un passato da giornalista, fotografo, insegnante di italiano, impiegato in una ONG. Dal 2011 lavora per l’Unione Europea.
Un racconto di Antonio Alberti
Numero di battute: 2450
È peculiarità delle città contemporanee dotarsi di contesti residenziali post-industriali in cui concentrare ricchezze ingenti. Si tratta di esempi virtuosi di rigenerazione urbana popolati da soggetti originali e dotati di eccezionale cultura. Si parla di chiarissimi professori, artisti in erba, visionari pre-pensionati, sperimentatori esistenziali e templari del relativismo morale.
Uno di questi luoghi – forse il più leggendario di tutti – è “la Fichera”, ex-conceria trasformata in tempio del sollazzo e dei princìpi. Le poche fonti attendibili raccontano che qui si viva un carnevale perpetuo, ricco di feste e lodevolissime iniziative civili. Non è chiaro, tuttavia, dove la Fichera si trovi e nemmeno si ha la certezza che esista o sia mai esistita. Sul suo conto, a dirla tutta, ci sono solo pettegolezzi da salotto e testimonianze quasi verificate.
«Uno di questi luoghi – forse il più leggendario di tutti – è “la Fichera”.»
Fra i commentatori che godono di un certo credito, c’è tale Gioacchino Visconti-Rubens, rampollo sterile di una celebre famiglia patrizia. Il Visconti-Rubens scrive del suo soggiorno presso la Fichera nel volume auto-pubblicato Conversazioni cross-temporali con Epicuro. Senza riportare con esattezza date e indicazioni geografiche, l’autore fa menzione di una grandiosa celebrazione di mezza estate: «… con caroselli da mane a sera, con colazioni pantagrueliche, con balli tra ninfe discinte e giovani androgini avvolti in fragranze d’oppio».
Attraverso la cerimonia pare si voglia manifestare un ambiguo «diritto a far quel che si vuole», in modo che i bimbi che vivono là possano «apprendere la bellezza delle diversità, dei costumi e dei corpi». La cronaca – sul punto generosa – riporta di uomini nudi e villosi che danzano sotto il sole; di persone narcotizzate che esplorano fra le siepi; di alcune ragazze che pregano la Madonna, che piangono, si baciano e mangiano gelato alla nocciola fino a indurre una dissenteria irrefrenabile, «… massimo atto di espiazione dei peccati occidentali…».
Sempre secondo il Visconti-Rubens, questa festa dei sensi si concluderebbe spesso con un decesso, a volte per shock termico, ma più di frequente per arresto respiratorio e infarto del miocardio. Malgrado la dolorosa circostanza, la comunità non interpreterebbe queste morti come una tragedia a cui porre rimedio. Anzi, per quanto sfortunato, il fenomeno sarebbe necessario per il prestigio stesso del luogo e, dunque, per giustificare un canone d’affitto che supera i venti euro al metro quadro.
Antonio Alberti nasce ad Abbiategrasso (MI) nel 1986. Nel 2005, inizia un percorso di studi in Scienze Politiche che si conclude con un dottorato in ambito filosofico sulla praticabilità delle prescrizioni politiche e degli orizzonti idealisti. In ambito narrativo, pubblica racconti in riviste a volumi collettivi e, nel 2019, la raccolta Non è un problema grave. Aspettano di decidere (Santelli Editore). Dal 2016, lavora come copywriter e consulente di comunicazione.
Un racconto di Danilo Pettinati
Numero di battute: 2404
Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono le immagini in movimento. Il corpo tozzo, affondato nel divano. Una stringa da scarpe regge appeso al collo un telecomando. Il volto di Beppe, sopracciglia folte e mascella serrata, cambia colore con lo schermo.
La voce acuta di un cabarettista copre il trillo del citofono, l’applauso del pubblico fa vibrare l’apparecchio. Un secondo trillo arriva dopo l'annuncio, ottimista e trionfale, della pubblicità.
Nero.
Rumore di passi. Quattro mandate, pesanti e lente, il cigolio dei cardini. Filtra una lama di luce, poi una mano. Il clic illumina la cantina spoglia.
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Beppe indica due scatoloni appoggiati a terra.
«E mi hai fatto venire per questo?»
«Quello va nell’altra stanza, devi darmi una mano.»
«Quella è roba tua, devi portarla via.»
Si avvicinano, è un vecchio banco da lavoro in legno massiccio.
«Dove sono gli attrezzi?»
«Che attrezzi?»
«Quelli per smontarlo.»
Beppe tasta il tavolaccio tarlato, cerca un appiglio.
«Papà, non penserai…»
Simone piega le ginocchia e scende col bacino, la colonna allineata. Cerca una presa. Contrae i muscoli, ma il tavolo non si muove.
«È troppo pesante, bisogna…»
Beppe punta i piedi e si butta di peso contro il mobile. Tira e spinge come un toro. Ma il tavolo non si muove.
«Papà…»
«A smontarlo perdiamo la giornata.»
Beppe si toglie la giacca.
«Parlare con te è come… ma che hai, perché ti sei portato il telecomando?»
Beppe si sputa nelle mani.
«Spingi da basso e mettici un po’ di forza.»
Appena il mobile stride sul pavimento, pochi centimetri, Simone perde la presa e l’equilibrio. Stacca una mano e si succhia dal dito una scheggia.
Beppe batte i pugni sul tavolo, muove la bocca, ma l’urlo va a vuoto. Senza fiato, si appoggia al muro toccandosi il petto.
«Papà, che hai? Che succede, non stai bene? Papà…»
Nero.
Rumore di ferraglia, colpi di martello. Silenzio. Poi lo scatto di un accendino.
«Stavi per avere un infarto e fumi.»
Beppe, seduto sugli scatoloni, aspira, si asciuga la fronte con la manica. Gli occhiali da vista, scivolati sul naso, riflettono un vecchio tavolo da lavoro mezzo smontato, chiavi e cacciaviti sul pavimento, suo figlio Simone.
«Se no lo perdo.»
«Che cosa?»
«Il telecomando. Lo tengo al collo. Dai andiamo su, finisco io domani.»
«Sei sicuro?»
«Tanto la giornata me l’hai fatta perdere.»
«Allora alzati che prendo gli scatoloni.»
«Ma lascia stare gli scatoloni. Ho preso il pollo, ti fermi a cena, vero?»
Danilo Pettinati è nato ad Acqui Terme nel 1983 e dal 2008 vive a Torino. Laureato al Dams e con un master in Giornalismo, per diversi anni ha lavorato come montatore video, occupandosi soprattutto di documentari. Ha collaborato con MazProject, laboratorio di scrittura collettiva, ed è stato redattore della rivista Narrandom. Alcuni suoi racconti appaiono online e in raccolte cartacee.
Un racconto di Luca Murano
Numero di battute: 2499
«È luminoso e ben servito» aveva detto l’agente immobiliare. Beatrice lo aveva seguito per un lungo corridoio, il parquet che scricchiolava sotto i suoi passi. La stanza si aprì davanti a lei come un’aspettativa tradita: un letto misero, una scrivania graffiata, e una finestra che dava su un muro. L’altra stanza, poco più grande di uno sgabuzzino, conteneva un armadio scrostato e odore di chiuso.
«Novecentocinquanta euro, utenze escluse. A Firenze non troverai di meglio.»
Beatrice annuì, più per mancanza di forze che per convinzione. Era già il sesto appartamento che visitava. Aveva iniziato con entusiasmo, immaginando la sua nuova vita: lo stage, le mostre, i libri da studiare nei caffè. Ma ogni visita le strappava via un pezzo di quel sogno, come se un arazzo intricato, ricco di promesse e colori, si smagliasse filo dopo filo, lasciandola con un tessuto informe e sbiadito.
«C’è già un altro ragazzo che vuole vederlo.»
«Lo prendo» disse senza pensarci.
Il contratto durò due anni. Due anni di muffa sul soffitto, schiamazzi notturni e bollette esorbitanti. La casa si mangiava più di metà del suo stipendio e il resto bastava appena per cibo e trasporti. A fine mese, spesso saltava i pasti, consolandosi con la vista di Ponte Vecchio al tramonto.
«A Firenze non troverai di meglio.»
Ogni tanto tornava al paese, accolta da sua madre con l’entusiasmo di chi non si aspettava più visite. «Ti vedo sciupata» diceva sempre. Beatrice scrollava le spalle e mentiva: «È il lavoro». Non voleva ammettere che quello era l’unica cosa che la teneva a galla.
Un giorno, mentre rincasava, trovò una lettera infilata sotto la porta. L’intestazione era inconfondibile: aumento del canone di locazione. Millecento euro, da pagare entro il mese successivo. Chiamò l’agente immobiliare. «Non c’è niente da fare» le disse.
Passò la notte sveglia, immaginando tutte le alternative. Alla fine, si alzò dal letto, prese un pennarello e scrisse un annuncio: Affitto stanza singola, 600€ mensili. Preferibilmente studentesse o giovani lavoratrici.
L’indomani lo appese all’ingresso della biblioteca universitaria. Poi s’incamminò verso Santa Croce dove si sedette sugli scalini, osservando la città con occhi vuoti. Giocherellò con un piccolo portachiavi a forma di giglio che aveva trovato in terra mesi prima. Lo fece scivolare dalle dita in una pozzanghera, guardandolo affondare. Poi si alzò e tornò sui suoi passi.
Dopo aver strappato l’avviso dalla bacheca, salì su un tram che sfrecciava verso il cuore della città, tra binari e annunci metallici.
Luca Murano, 1980, si è laureato in Lettere moderne all’università di Pavia. Ha lavorato come redattore e correttore di bozze per Mondadori e attualmente vive e lavora in provincia di Firenze. Dal 2011 gestisce il blog di racconti VaiComeSai. Negli anni, molte di queste storie sono apparse su antologie e riviste letterarie fra cui, ’tina, Topsy Kretts, Malgrado le Mosche e Nido di Gazza. Oltre a scrivere per il sito sportivo Around the Game, ha pubblicato due raccolte di racconti: Pasta fatta in casa: sfoglie di racconti tirate a mano (Bookabook, 2018) e I vestiti che non metti più (Dialoghi, 2021). Fa parte della giuria del Premio Letterario Zeno e collabora con BookTribu.
Un racconto di Lucia Cherubini
Numero di battute: 2497
Le ruote seguono quattro piste diverse sulla moquette: una si dimena tra peli incollati e polvere di gesso, un’altra ha fretta. Un sobbalzo occasionale scuote le viti provocando un lamento generale di ferraglia. L’uomo procede sicuro, la tuta blu scivola sul muro come una mano sotto la stoffa. Stringe il manubrio del carrello come se soltanto questo potesse impedirgli di sfasciarsi, rivelando una pioggia di minuscole parti sconnesse.
Si accarezza la testa liscia. Un tempo soltanto i capelli rossi lo staccavano dal fondale. Adesso l’intonaco azzurro è crepato, ogni tanto ne schiaccia un pezzetto sotto la scarpa ed è come calpestare la neve fresca. Quando gira l’angolo il carrello sbanda, un topo gli schizza tra le gambe e sparisce nell’ombra tra una finestra e l’altra. In vent’anni nessuno ha toccato niente, come in paese; le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte non sono nemmeno chiuse a chiave.
«Le case si sono svuotate e basta, hanno tirato le tende e le porte
non sono nemmeno chiuse a chiave.»
La moquette non attutisce il brontolio metallico, è l’unico suono nella corrente di assenza. Manca tutto, soprattutto la risata argentina dell’ultima campanella. Gira ancora l’angolo e intuisce il profilo di un armadietto di ferro. La solitudine è come un odore che non ti levi di dosso finché non ci fai l’abitudine. Sa di polvere, legno tarlato e gesso. Nei giorni buoni profuma di carta.
Dal portone d’ingresso la luce entra come uno schiaffo. Ai professori hanno dato una pensione anticipata, consideratelo un regalo. Per lui c’è stata una pacca sulla spalla e un articolo di giornale: “Bidello eroe rifiuta di abbandonare la scuola”. Sua madre l’ha appeso in cucina, ma lui ha sempre preferito la parola “custode”. Sulla soglia raddrizza le spalle, liscia il colletto, inspira a fondo. Gli hanno detto che può portare via quel che vuole, basta che si dia una mossa. Ora non c’è più bisogno delle scuole e nemmeno delle madri: per fortuna la sua l’aveva capito da un pezzo.
Fuori il plotone d’esecuzione è già schierato, hanno fretta ma devono arrendersi al breve corteo aritmico di uomo e carrello. Le ruote affrontano la ghiaia lottando per non affondare; solo una delle guardie, la più giovane, ha un’occhiata curiosa. Sono libri, dice il vecchio, solo libri. L’altro gli fa segno di andare con una breve scrollata di spalle. Non sa di che parla ma lo osserva allontanarsi, la schiena ha un impercettibile sussulto quando le cariche esplodono e la scuola collassa in una tempesta di frammenti. Non c’è più spazio per il silenzio. Il futuro odora di tritolo.
Lucia Cherubini è nata in campagna. Ha studiato Medicina e dopo la laurea si è specializzata in Psichiatria nel tentativo di capire un po’ di cose. Sta concludendo la formazione in Psicoterapia Familiare, ma non le ha ancora capite.
Un racconto di Giovanni Fava
Numero di battute: 2296
Il nuotatore non ha nome. Di tanto in tanto dalla riva lo si vede passare, guardando verso il largo. La sua testa e le sue gambe e le sue braccia fendono l’acqua che si apre e subito richiude ed emergono come il dorso di un pesce che nuota in superficie. I bambini in spiaggia lo indicano e saltano, lo seguono finché il fiato regge correndo sul bagnasciuga. Poi il nuotatore cambia direzione, si spinge più al largo, sparisce tra le onde e i flutti.
La mattina o nel tardo pomeriggio, il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più. Riflette le poche nuvole impassibili che procedono verso l’orizzonte. Qualche uccello, un gabbiano, attraversa il cielo in diagonale. Il suo grido taglia l’aria e raggiunge il nuotatore, che ora attraversa il mare con bracciate comandate da un ritmo militare. Quando c’è la luna piena invece il mare assume un’altra forma, aumenta in trasparenza e i pesci salgono in superficie. Hanno le scaglie come il metallo.
«Il mare è piatto, corre come un deserto fin dove non si vede più.»
Il nuotatore avanza illuminato dalla notte mentre un fascio di luce si proietta su di lui, lo sospinge nella desolata vastità delle acque che attraversa riandando coi pensieri al tempo in cui viveva a terra, dentro a un silenzio che è totale. Gli manca quel sostegno sotto i piedi? Gli mancano le voci, gli odori degli amici, di suo padre, di sua madre? Il nuotatore lascia che lo scrosciare dell’oceano gli riempia la memoria, perché l’acqua è il suo presente e il suo orizzonte.
Una volta il nuotatore si trovò affiancato da una donna. Anche lei nuotava. Per lunghe ore, nuotarono insieme scambiandosi sguardi cadenzati interrotti solo dal ritmo delle bracciate finché un’isola apparve sul filo dell’oceano. Il nuotatore le disse che non avrebbe più toccato terra, che doveva fermarsi lì dove l’acqua ancora era alta e il mare profondo. Non posso, disse, non posso fermarmi.
Lei proseguì sino a riva dove lentamente tirò il suo corpo fuori dall’acqua per sedersi rivolta all’oceano, guardando l’orizzonte. Il sole calava e il nuotatore già non si vedeva più. Piangevano entrambi con le lacrime che diventavano acqua e gli animali marini che ascoltavano in silenzio, indifferenti a quell’immotivata disperazione.
Il mare è un buon posto per i pesci, soprattutto per i pesci che vivono nelle fosse più profonde. Non per gli uomini.
Giovanni Fava (1996) vive tra Treviso e Venezia, dove sta facendo un dottorato in Filosofia su temi ecologici. Dirige Palomar – Rivista di filosofia e traduce dall’inglese per Anthropocene.org. Altri suoi racconti sono apparsi su Micorrize.
Un racconto di Marina Mongiovì
Numero di battute: 2086
A ogni passo esplode uno stridere di foglie. Mi sollevo sulle punte come quando, da bambina, entravo in camera di mamma e papà. Guardo alle mie spalle e vedo filari di querce e castagni, folate improvvise fanno stormire le fronde. È qui, da qualche parte nell’ombra. Il lupo, l’orco, l’uomo nero. La sua figura potrebbe confondersi tra rette di cortecce. Mi osserva e conosce l’incedere incerto, le pupille assetate di luce, la fame d’aria nel petto della preda. Respira piano e attende che io mi fermi, in un eccesso di fiducia o con le gambe spezzate dalla fatica.
Una luna calante illumina un percorso di sassi e rovi. Il bosco ha dita sottili che solleticano la schiena, le caviglie e i polpacci. Mi piace pensare che le tele dei ragni e le resine dei pini possano sanare gli squarci sulla carne, alleviare il dolore viola dei pugni. Voglio credere che tutte le foglie, con il loro canto notturno, possano placare questa angoscia che preme sul costato.
«È qui, da qualche parte nell’ombra.»
La casa è a valle, adagiata su una pianura che odora di zagara, al riparo dal maestrale. Da una finestra si vede la montagna e, verso est, si intravede uno scorcio di mare. La casa sta in mezzo, è qualcosa che non sa cosa essere e cosa diventare. Là ho lasciato file di detersivi e grucce, una tavola apparecchiata per cena, le lenzuola da lavare, il vorticare monotono delle centrifughe, la piattaia e i barattoli di yogurt, illuminati dalla fredda luce del frigo. Nella normalità di un divano e un televisore, risuona ancora il singhiozzare dentro a uno sgabuzzino, e assordano i silenzi come bandiere bianche.
Il buio del bosco non fa paura, come nelle fiabe che mi raccontavano da piccola. Sono nel posto giusto, tra lo sguisciare di piccoli rettili, le ombre che si allungano, il canto dei grilli e della civetta, l’odore di terra umida che, dalle narici, scende ai talloni e mette radici. Superato un pendio si apre una radura, quello che un tempo era un cratere vulcanico ora è un lago di foglie d’acanto e felci. Sulla testa non ho più le chiome dei faggi ma uno sciame di stelle.
Mi volto un’ultima volta. L’ho seminato.
Un racconto di Andrea Leone
Numero di battute: 2215
Aveva atteso un attimo, in equilibrio di fronte al cancello, dando solo un filo di gas; poi aveva spalancato, e la For Race e il blocco 70cc Polini Sport e il filtro a cono avevano urlato come uno stadio intero, e la ruota anteriore s’era immediatamente impennata; casa sua l’aveva “salutata” col dito medio alzato, ancora impennando, con la mano destra che amministrava ritmicamente il gas, mantenendolo in perfetto equilibrio.
Il cielo era un deserto d’azzurro, e ora sì che finalmente si ragionava: l’odore speziato dello scarico, il frastuono amico nelle orecchie, e solo lui e quel cielo, uno di fronte all’altro, senza più voci, facce sgradite, rotture di coglioni, né niente.
«Era un vero fenomeno a impennare.»
Voglia di tirare fuori anche la lingua, di prenderlo a morsi quel cielo; e anche di sputare all’indietro, soprattutto quando (come in questo caso) con la coda dell’occhio notava una sagoma di vecchietta lungo il ciglio della strada. S’immaginava allora la decrepita in questione che ne seguiva la traiettoria, fino a terra, e poi che scuoteva la testa, lagnandosi di quegli sciagurati-giovani-di-oggi. E anche, come ci rideva!
Era un vero fenomeno a impennare. Una delle cose che più amava e che più sentiva di saper fare. (Ma anche la cosa di lui che più era risaputa e tenuta in conto dai coetanei, ché lui era quello “baciato da Dio”, che aveva un talento come non s’era mai visto a starsene lassù, su-una-ruota.)
Avesse potuto? Praticamente si sarebbe votato solo a quello. A impennare. L’impennatore avrebbe fatto.
Ma di più: in quel momento, lungo la via, se la via stessa si fosse ripiegata per formare un circuito infinito, lui avrebbe firmato seduta stante per non tornare mai più giù, a terra. Gli era presa così, un’improvvisa smania di restarsene per aria, su-una-ruota, fino a data da destinarsi…
Ma c’era lo stop: e quasi l’avrebbe eluso, si sarebbe immesso in strada tra un po’ senza guardare, tenendo fede a quel matto proposito, assurdamente sicuro…
Ma un camion sopraggiungeva… strombazzò fragorosamente…
E per un’unghia soltanto, (un’unghia, dico!), riabbassandosi, deviando appena in tempo nel fosso di fianco alla strada, non fece di sé e del suo Phantom F12 truccato uno sfacelo di acciaio, vetroresina e carne.
Andrea Leone è nato a Lucca nel 1989. Dopo undici anni di autoproduzioni musicali (tra cui un disco, TRE, prodotto nel 2016 da Manza Nera label), dal 2017 si dedica stabilmente alla letteratura. Un suo racconto è apparso sulla rivista Smezziamo.
Un racconto di Martina Ciullo
Numero di battute: 2314
Da quando avevamo scoperto che ero incinta ne avevamo visti a decine.
I colloqui li facevamo in ufficio. «La prudenza non è mai troppa» diceva mio marito, e io ero d’accordo, soprattutto quando si parlava di robot-babysitter. Si sentivano strane storie. Un luccichio sospetto in fondo agli occhi, un cenno furtivo con la mano. Certi modelli sembravano leccarsi le labbra, anche se non avevano né lingua né labbra.
«Ho sentito dire che un robot ha cercato di rapirne uno» dicevo a mio marito, la sera, a letto. Lui mi rassicurava, avevamo iniziato a cercare con grande anticipo e avremmo scelto un modello di prima fascia.
«Si sentivano strane storie.»
E poi, dopo infiniti colloqui, avevamo conosciuto lui, un robot maschio. Non che li avessimo esclusi a priori, ma sapevamo che le femmine avevano più skills. Eppure appena avevo visto Ting Ting avevo capito che era quello giusto.
Lo sguardo dolce, le mani sulle ginocchia. Sembrava un uomo appena arrivato nel nostro paese da molto lontano più che un robot governativo progettato per aiutare le famiglie che potevano permetterselo.
Ting Ting mi aveva chiesto: «Come si chiamerà?», e siccome nessun altro robot aveva mai fatto una domanda simile, io, d’istinto, gli avevo risposto.
Poi mio marito mi aveva sgridata: «Perché gli hai detto il nome vero?».
Mi fidavo già di Ting Ting, ma non potevo certo dirglielo.
Dopo altri due colloqui nell’ufficio, l’avevamo fatto venire a casa nostra. Lui sfiorava tutto con lo sguardo, stando bene attento a non urtare nulla. Io gli sorridevo, sempre più rotonda.
«Vieni, Ting Ting, ti faccio vedere la camera della bambina.» Lui era rimasto per lunghi minuti a fissare la culla.
«In quale lingua vorresti parlarle?» gli aveva chiesto mio marito. La prima funzione dei robot-babysitter era far crescere i bambini bilingui.
Ting Ting gli aveva risposto con una rapidità sorprendente: «Potrei parlarle in cinese?».
Nessuno di noi aveva niente in contrario, anche se avremmo preferito una lingua più internazionale. Dopo la guerra nucleare la Cina era una minoranza, ormai meno di un milione di persone parlavano mandarino nel mondo.
«Sei cinese, Ting Ting?», gli avevo chiesto, senza nessun motivo, e infatti non mi aspettavo che lui mi rispondesse.
Avevo pensato che eravamo fortunati, io, mio marito e la bambina.
Poi lui aveva detto: «Vorrei saperlo anch’io».
Martina Ciullo è una violinista professionista e scrive da sempre. Ha studiato Giornalismo a Trieste e Sceneggiatura alla Scuola Holden. Vive a Roma.
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