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racconto ilaria tedesco

svarione

Un racconto di Ilaria Tedesco
Numero di battute: 2446

A settembre avrei dovuto iniziare Giurisprudenza.
«Ci darà soddisfazioni» era solito ripetere mio padre. Col tempo, poi, i colleghi hanno iniziato a guardarmi storto e la mano sulla spalla si è fatta più pesante.

All’inizio mi piaceva stare in mezzo a quegli scaffali. Da piccolo per esempio mi divertivo a inseguire date e timbri sui fascicoli polverosi, a lisciare il dorso dei libri col dito. Mio padre scambiava quei giochini matematici per curiosità finendo per leggermi quelle che credevo incomprensibili storie numerate da tomi presi a caso. «Un giorno imparerai tutti gli articoli» mi diceva, «perché sei intelligente.»

Quando iniziai a leggere quei codici, invece, non ci capivo niente. Troppe virgole. Con i numeri era diverso. C’erano le centinaia-decine-unità virgola i decimi-centesimi-millesimi. Se persino qualcosa di trascendente come il pi greco ne aveva una sola, il problema doveva essere del legislatore. «Sei intelligente, devi imparare a stare al tuo posto» mi disse. Fu l’unica vola che glielo feci notare.

«Ce la farà,
non vedi che è intelligente?»

La prima litigata avvenne in prima liceo. Una questione condominiale: articoli mille centodiciassette, mille centoventiquattro e mille centotrentasei. Lui spiegava e io vedevo solo tre punti con la stessa ordinata per i quali passava una (e una sola) retta. «E l’articolo mille centoventinove?» chiesi spaesato. «Non ci riguarda» rispose. Disegnai allora un piano cartesiano mostrandogli come la retta passasse anche da lì. Mio padre alzò gli occhi al cielo urlandomi di restare nel mondo reale. Ma quello non era un asse immaginario, restavo persino bidimensionale. «Sei intelligente, perché non usi parole?» mi implorò. Ma quelle che usava lui io non le capivo.

La notte di cinque mesi e sette giorni fa origliai alla porta della stanza da letto. Mia madre piangeva, diceva che non mi aveva dato scelta. «Siamo avvocati da generazioni» rispose mio padre. «Chi porterà avanti l’attività, sennò?» Poi la rincuorò: «Ce la farà, non vedi che è intelligente?».

Fu allora che decisi di fare la cosa più stupida che mi venne in mente: diedi fuoco allo studio.

A pensarci bene avrei potuto essere un filino più intelligente, avrei potuto consultare prima il codice penale. Ma come ho detto, quei tomi mi erano ostici: troppe virgole, poche rette. Mi sarei perso nei calcoli.

A settembre dunque non inizierò Giurisprudenza. Magari tra quattro anni, quando esco. Sempre che mio padre mi consideri ancora intelligente, chissà.

tedesco ilaria bio

Ilaria Tedesco, campana, ha studiato Economia. Si occupa di cooperazione internazionale e progetti di sviluppo rurale. Dopo aver girovagato qua e là, ora vive a Monaco di Baviera. Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville e il suo primo romanzo è uscito dal cassetto.

racconto simone ghelli

non si torna indietro

Un racconto di Simone Ghelli
Numero di battute: 2407

Da farfallon69@hotmail.com
A dariogarbaglia@gmail.com
giovedì 9 luglio 2020, ore 11.41

Oggetto: note al capitolo terzo

Caro Dario,

ho appena finito di leggere il materiale che mi hai mandato. Devi perdonarmi per la lunga attesa, ma come sai dovevo consegnare le bozze del mio ultimo libro e poi c'è stata la pandemia e non potevo non aggiungere almeno una riflessione sulle ricadute da un punto di vista economico e su quelli che saranno i cambiamenti nelle abitudini degli spettatori.

Sono dell’idea che il capitolo tre possa andare, anche se in alcuni punti trovo l’analisi troppo spinta (nel file allegato puoi vedere i miei interventi e le modifiche che ti suggerisco). Sarò franco: a me i continui rimandi alla filosofia (a certi filosofi, soprattutto) risultano un po’ indigesti.

L’università non è più quella di quindici anni fa, i lettori (e gli studenti, in particolare, che sono i nostri principali lettori) non vogliono cose troppo complicate. Io ormai a lezione devo fargli gli schemini come a scuola, persino le note sono diventate una zavorra che piace solo ai comitati di valutazione. Il mio consiglio è di arrivare al punto per le vie più dirette, senza troppi giri di pensiero. Le pose da intellettuale non le vuole più nessuno, qui in dipartimento meno che mai. Anzi, sono proprio viste come qualcosa di inopportuno.

«Le pose da intellettuale
non le vuole
più nessuno.»

Perdonami ancora per il ritardo e per la franchezza, che potrebbe sembrarti eccessiva, ma devo ragionare nell’ottica del tuo bene. Se vuoi fare carriera, devi metterti in testa che oggi è l’utente che decide, e l’università, per restare aperta, ha bisogno di iscritti. Siamo entrati nel mondo della domanda e dell’offerta e ormai non si torna più indietro. La grossa sfida è riuscire a non abbassare troppo la qualità, ma su questo punto non ho niente da insegnarti. Tu sei il nostro Serge Daney, il nostro jeune turc in maniche di camicia!

Sappi che vorrei avere solo la metà del tuo idealismo.

Saluti e abbracci dal tuo tutor,
Vincenzo

P.s.: mettici dentro anche qualche film recente, qualcuno di quelli che vedono anche le matricole (anche le commedie un po’ sceme, i format riadattati dall’estero) perché se poi vuoi farci un libro dovremo inserirlo in qualche corso, no? So che sei uno puro, ma questo è un mondo in cui purtroppo dovrai sporcarti. E ancora non hai visto niente. Lo studio per lo studio è finito da un pezzo, fattene una ragione adesso che sei ancora in tempo.

bio simone ghelli

Simone Ghelli ha pubblicato in passato un paio di romanzi brevi e alcune raccolte di racconti, tra cui Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017) e La vita moltiplicata (Miraggi, 2019). Suoi racconti sono comparsi anche in varie raccolte e su alcune delle principali riviste letterarie italiane. I suoi ultimi libri sono la novella Ronnie Banti ha perso la scommessa (Divergenze, 2022) e il romanzo Bianco su bianco (Castelvecchi, 2023).

racconto Marta Barattia

tramonto

Un racconto di Marta Barattia
Numero di battute: 2146

Luigi è seduto nell’ingresso quadrato, sprofondato in una poltroncina magra, le palpebre pesanti semichiuse dietro la spessa montatura in bachelite nera, le pantofole di panno, il gilet di lana. La pelle delle mani è trasparente, quasi azzurra.

«Facciamo due passi, è una bella giornata» dice Egle sfiorandogli la spalla.
«Non posso, aspetto una telefonata.»
«Una telefonata. E da chi?» chiede Egle.
«Una ragazza» dice Luigi, e gli si spalanca una fessura negli occhi e una identica schiude le labbra in un sorriso.

«Capisco» dice Egle, «allora uscirò per conto mio.» Infila il cappotto di cammello, si aggiusta i capelli sotto la cloche color cipria e scivola fuori dal portoncino.
Silenzio.
Trascorrono alcuni minuti, poi il telefono squilla.

«Non posso, aspetto una telefonata.»

Luigi si accende, solleva la testa, afferra la cornetta grigia dell’apparecchio posato sul tavolino lì a fianco e risponde. Ascolta. Annuisce. Ride. «Certo, certo» dice. «Al solito posto» dice. «A tra poco.» Poi riattacca. Scavalla le gambe per appoggiare entrambi i piedi a terra, piega i gomiti, spinge sui braccioli. Si smuove appena, incredulo.

La serratura scatta nuovamente ed è subito il provvidenziale ticchettio delle décolleté di Egle, il suo profumo al mughetto.

«L’appuntamento!» dice Luigi. «Si sbrighi, mi dia una mano!»

«Anche oggi ha ricevuto quella telefonata, allora…» dice Egle, e senza nemmeno sbottonare il cappotto si china a infilargli le scarpe che stavano già pronte lì a fianco. Un gettone del telefono le scivola fuori dalla tasca: tintinna, rotola sul pavimento di graniglia e si ferma muto contro le pattine, accanto al portaombrelli. Luigi si aggrappa al braccio di Egle, si solleva; escono insieme.

L’ascensore scende sferragliando al piano terra. Fuori il sole del pomeriggio bagna appena il marciapiede, nei viali del parco le foglie scricchiano sotto i loro passi lenti. Luigi ha il respiro sottile.

«Allora mi dica, signor Luigi. Chi è questa ragazza?»
«È Egle. La mia Egle. Ormai è quasi un anno che ci parliamo. Mi aspetta alla panchina vicino alla fontana. Non voglio far tardi, è già quasi il tramonto.»
«Siamo partiti per tempo; facciamo ancora un giro, camminare le fa bene.»

bio marta barattia

Marta Barattia (1977) è nata e vive a Torino.  Sa da sempre di voler scrivere, perciò è brillantemente riuscita a non farlo per moltissimo tempo. Da vent'anni il suo non-vero-lavoro è insegnare il teatro a bambini e ragazzi condividendo il suo non-dignitoso-stipendio con un marito, due figlie e un cane. Non ha mai superato la prova costume. 

racconto Giulio Morelli

prosopagnosia

Un racconto di Giulio Morelli
Numero di battute: 2497

Vera vede solo ciò che può sopportare. Sul materasso il corpo di Mauro sembra quello di un morto. È la prospettiva da cui lo guarda a confonderla, a farlo sembrare morto, ma Mauro non è morto: respira (i morti non lo fanno). In via Padova è tutto come ieri – non è cambiato nulla. Sul pavimento poche tracce – le solite: umori vari, peli e capelli. Le pareti pullulano di istantanee, ma nella penombra i volti sono macchie generiche.

La stanza, a parte Vera e Mauro, contiene un letto (al centro), un appendiabiti (vicino alla porta), un comò (sotto la finestra – l’unica). La luce è spenta e, dato che non c’è una piantana, è lecito supporre che a mezzaria penda un lampadario.

«Allora sposiamoci.»

Il soffitto è un soffitto come tanti, non ha nulla di speciale come l’amore di Vera e Mauro. Si sono conosciuti sette anni fa in un pub gestito dai cinesi. Seduti al bancone, Vera e Mauro hanno ordinato la stessa lambic. Una risata impacciata a cui sono seguite una stretta di mano e una relazione da manuale. Hanno capito di appartenersi quasi subito. Aspettavano il tram, Vera aveva una sneakers slacciata, Mauro si è inginocchiato e gliel’ha allacciata. «Mi stai chiedendo di sposarti?», «Sì», «Allora sposiamoci».

Non lo hanno fatto. Mauro ci pensa ancora al fatto che non l’hanno fatto, che Vera ora è di un altro, che ride a battute che non sono le sue, che ha messo al mondo un figlio che non gli assomiglia. Vera gliel’ha mostrato, scrollando tra le foto dell’iPhone, Mauro lo ha guardato di sbieco; poi un «congratulazioni» strozzato, un rantolo nella gola, emerso dalla bocca come un conato.

Mauro avrebbe accettato il figlio di Vera soltanto se fosse stato suo, ma non è suo – è roba di un altro di cui non sa nulla, a parte che si è preso Vera. Ha cercato di strappargliela come un cerotto, ma i lembi sono intatti, la colla resiste all’acqua, allo sfregamento che leva aderenza a ciò che è progettato per aderire.

Vera e Mauro si sono lasciati per un errore di calcolo, ma scopano ancora nel bilocale che Vera aveva progettato per loro. Quando ci vivevano insieme, il mondo restava fuori dalla porta, ora che vivono separati il mondo è dappertutto, filtra da sotto la finestra, si deposita sul parquet, sedimenta tra le intercapedini. Mauro si sposerà ad aprile: Vera ora lo sa. Prima di uscire, si rivestono, poi si salutano con un cenno della mano. Oltre la soglia i loro volti sbiadiscono come le istantanee sulle pareti: sono irriconoscibili; raccontano una storia che non è più la loro, ma la nostra.

giulio morelli bio

Giulio Morelli è un robespierrista, vive a Eupilio e insegna storia. Scrive, non pubblica. Detesta che qualcuno oltre a sé stesso legga ciò che scrive. Ha un cane, si chiama Thomas.

racconto ballarini

il papero

Un racconto di Isabella Ballarini
Numero di battute: 2133

Cammini per quella strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce, sotto la pioggia che diventa ogni giorno più fitta. Passi davanti al Papero e fai finta che lui non sia lì. Guardi in basso, pur di non vedere il suo sorriso che splende dai cartelloni stradali. Il tuo passo accelera, i tacchi delle scarpe barcollano, le pozzanghere rischiano di farti cadere a ogni passo. Ogni giorno così, sotto quel diluvio che va avanti ormai da più di due mesi. Ma tu te lo ricordi, il Papero, quando ancora elemosinava attenzione da quelli che si rifiutavano di alzare gli occhi su di lui. Giorni lontani, quelli. Le gocce di pioggia non cadevano così spesso, tra le nuvole e il vento c’era sempre un tiepido sole. E il Papero non era un papero.

Era una persona che sognava in grande e guardava il cielo. Tu lo conoscevi bene. Ti piaceva, persino. Sorridevi e intanto i capelli ti cadevano sugli occhi. Credevi che lui avrebbe cambiato il mondo. È cambiato il vento, invece, è cambiato tutto. L’uomo si è fatto Papero.

«L’uomo
si è fatto Papero.»

E mentre la pioggia cadeva sempre più spesso, il Papero avanzava nella notte. Era folle e selvaggio e mentiva a tutti con violenza spudorata. La sua immagine si faceva bestia giorno dopo giorno. Lui saliva nei cuori perché usava parole di gloria. Si tagliava i capelli, si cambiava i vestiti. Appariva sugli schermi televisivi, o sui giornali, o sui computer. I soldi gli arrivavano addosso senza che facesse niente per cercarli. Gli bastava esistere: ogni sua parola muoveva le masse.

Mentre corri sotto la pioggia, butti l’occhio ai cartelloni dove il Papero appare e vai avanti senza fermarti. Lo vedi starnazzare, dimenticarsi di te. Vedi la gente che lo ama senza motivo. Nessuno si accorge della pioggia: quella viene giù sempre più fitta e tutti stanno là, a bagnarsi, a sorridere, a vivere come paperi agli ordini di un Papero.

Tu cammini per la strada in fretta, come ogni mattina. Tieni la borsa sotto il braccio, stringi il manico dell’ombrello e fuggi veloce. Passi davanti al Papero e guardi in alto, verso il cielo.

La tua mente resta tua.

bio Isabella Ballarini

Isabella Ballarini scrive da diversi anni. I suoi racconti sono usciti sulle riviste L'Irrequieto, Sulla Quarta Corda, Quaerere, L'Equivoco, CrunchEd e Spaghetti Writers.

vincenzo montesano racconto

la scatola

Un racconto di Vincenzo Montisano
Numero di battute: 2357

Sono nato costretto in una stanza due per tre. Vuota, come un luogo comune. Senza porte né finestre. L’aria è tanfata di nicotina, sebbene io non fumi. Al centro, un tavolo di legno sberciato su cui poggia una scatola di metallo, chiusa, dai bordi taglienti. Non c’è modo d’aprirla, e d’altronde non ho mai tentato.

Ogni cinque anni, il giorno del mio compleanno, un biglietto d’auguri esce dalla scatola. Prima si innesca un frullio, come d’ali d’insetti allarmati dalla possibilità imminente d’essere uccisi, poi, senza particolari entusiasmi, nella noia mortale che al passare del tempo ferisce ogni curiosità, il biglietto sbuca da sotto la scatola. Tua madre ti vuole bene, diceva il primo. Il messaggio era vergato – e io ero un bambino – con una calligrafia dalle m tondeggianti e dalle o morbide.

Nel rammarico di non aver allattato al seno, pensai all’inconveniente che dev’essere stato per l’ignota genitrice la mia nascita, e allora capii, perdonai, trovai in me le ragioni di un abbandono. Ne ho collezionati undici in tutto, di questi biglietti.

«Il terzo diceva:
la guerra è finita».

Il terzo diceva: la guerra è finita e quel giorno, scoprendomi la pancia, non mi meravigliai di non possedere l’ombelico. L’ottavo diceva: tuo padre non ti ha mai toccato tra le gambe e allora posai il polso sul bordo tagliente della scatola, segai fino all’osso, poi gettai via la mano, per paura di compiere atti indegni.

Il nono biglietto non lo lessi per intero, l’interesse è sempre stato per me prossimo allo zero: cosa scorre di così galvanico, mi chiedevo, tra la scatola e la stanza, tra la stanza e il mondo esterno, perché tutti siano così elettrizzati dalla vita? Utopico è appassionarsi a ciò di cui non si hanno evidenze; a una realtà la cui giustizia è sempre indizio e mai prova di colpevolezza. Ma oggi, oggi è un giorno ben strano, mi dico. Le mie logiche si pervertono, oggi. Il mio corpo muore, oggi.

Con la mano che mi resta, scaravento a terra la scatola, vorrei sapere, le urlo prendendola a calci, sputandoci, pisciandoci sopra, vorrei sapere, sapere perché! Poi rifiato, torno in me, al mio schema. L’ira decanta nella stanza vuota. Il frullio, questa volta, è meno energico del solito. Gli insetti staranno crepando, penso. Il dodicesimo biglietto sguscia dalla scatola accanto alla mano mozza già putrefatta. Il biglietto dice: la chiave per aprirmi è dentro la scatola.

bio Vincenzo Montisano

Vincenzo Montisano (1988) è stato finalista alla VI edizione del Premio Neri Pozza con il romanzo Inaugura stanotte il secolo del bene, in pubblicazione nel 2025 per Wojtek. Ha pubblicato la novella Logica degli incendi (Industria&Letteratura 2024). Nel 2023, un suo racconto è stato selezionato nella longlist di The Florence Review. Dal 2019 codirige la collana di poesia I Masnadieri per Tra Le Righe Libri. Collabora dal 2009 con i collettivi Nucleo Kubla Khan e La Masnada. Ha pubblicato su Atomi-Oblique, Narrandom, Quaerere, Micorrize, Palin Magazine.

racconto Lorenzo Zerbola

piccola storia di un impazzimento

Un racconto di Lorenzo Zerbola
Numero di battute: 2380

molto deve provare
di grato e d’ingrato chi a lungo qui
in questi giorni di conflitto fa uso del mondo.
Beowulf, vv. 1060-1062

 

Non appena sveglio andò automaticamente in bagno e, aspettando lo stimolo necessario per cagare, si mise a leggere l’etichetta dello shampoo. Appena poco più tardi, dieci o quindici minuti circa, catapultato nel solito traffico delle sette e mezza, si rese di conto di non ricordare più quella strana parola che deve anche aver pronunciato, seduto sulla tavola del cesso, nel tentativo di masticare qualcosa dal suono sconosciuto, duro come un granello di pietra. O meglio, era sicuro di ricordarla, di poterla scrivere addirittura, ma a forza di ripeterla e visualizzarla era come se ne avesse perso il pur piccolo significato, la polpa; e gli rimase solo il dubbio.

Passò poi l’intera giornata come al solito, in un ufficio. Tornato a casa, si rese conto che il coinquilino, in uno dei suoi imprevedibili raptus germofobici, aveva pulito casa e buttato tutti i flaconi vuoti che da qualche settimana arredavano il ripiano della doccia.

«Il flacone non c’era, era finito.»

Non andò al supermercato di proposito, ma per necessità generale, anche se poteva rimandare ancora di qualche giorno. Seguì passivamente un’immutabile lista mentale della spesa, intanto che con l’occhio cercava la corsia dei prodotti igienici, senza mai trovarla dove si aspettava – dovevano aver riorganizzato le corsie, come ogni settimana. Chiese indicazioni a un cliente qualsiasi, che non gli rispose, e infine a un commesso che, senza dire nulla, gli indicò un punto con il dito.

Il flacone non c’era, era finito.

Prima di addormentarsi, pensò ancora una volta a quella parola vuota e sconosciuta, ma non si preoccupò di non riuscire a ricordarla, di averla forse persa per sempre.

Col passare del tempo, si fece sempre più silenzioso, risucchiato da quella cancellatura simile al tassello mancante di un puzzle immenso, lasciandosi pian piano andare a una vita scandita da impulsi che automaticamente lo svegliavano, lo staccavano da una sedia o un sedile, gli permettevano di attraversare la strada senza essere investito da veicoli urlanti; pulsazioni che lo facevano accedere a nuove schermate di impalpabili home e sezioni, aprire i nuovi ma superficiali messaggi, in un grigio silenzio assoluto di veloci video insignificanti.

E i contorni delle cose si liquefacevano tra le mani di chiunque, frattanto.

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Lorenzo Zerbola (1993) scrive racconti (alcuni sono stati pubblicati su Verde e L’Inquieto) e fa l'insegnante in una scuola appenninica. Col passare del tempo ha perso il suo famoso piede destro, forse a causa di quella che tutti chiamano sedentarietà della vita. Permane sonnolento. Ciò che lo contraddistingue maggiormente, dicono, è la sua capacità di dare ottime indicazioni stradali.

racconto alessandra lamanna

anelli fritti

Un racconto di Alessandra Lamanna
Numero di battute: 2444

Li hai nascosti in borsa, in un tovagliolo di carta che non trattiene l’olio in eccesso. Ti resterà la puzza. Sei anelli di calamari come i nostri sei anni assieme.

È un giovedì di gennaio in un ristorante di sushi di fronte all’Adriatico. Fuori quattro gradi, dentro un clima equatoriale. C’è un acquario, anzi no, solo un grande schermo tv che proietta immagini di un acquario con pesci tropicali. Tutto è blu: tavoli, divanetti, pavimento. Tutto troppo fermo, impregnato dell’odore pungente della salsa di rafano. Si muove solo la cameriera per uscire a buttare secchi neri.

Ordini come se fossimo in dieci.
«Non ce la faremo mai a finire» dici divertita.
«Se non mangi tutto, paghi una penale» ti dico serio.
Non lo sapevi, fai la tua faccia ingenua, quella dell’inizio anche se presto i barlumi di innocenza si sono alternati a distillati di ferocia. Come quella volta che mi tirasti giù le mutande e poi ti fermasti di botto: «Il tuo odore sembra la pipì del mio gatto» dicesti.
Ora invece dici: «Per una volta che non capisco una cosa io fra le migliaia che non hai mai capito tu».

La volta che hai abortito, per esempio. Non volevi un figlio, eravamo d’accordo. Anche quando la ginecologa ci fece sentire il battito, nessun dubbio. Eppure, ci rimuginasti per mesi finché io sputai un: «Massì, io forse lo avrei tenuto». Ecco: se dovessi trovare l’inizio della fine, direi che è questo.
Come archivierai questa ultima cena per restituirti le chiavi di casa? Io fra le cose misere, come quelle che non hai più la forza di sperare.

«Se non mangi tutto, paghi
una penale.»

Ingoi un uramaki in fretta per chiedermi: «Hai presente quando lei dice che la gente dovrebbe fare solo quello?». Parli dell’ultimo film al cinema. La protagonista passa metà pellicola a scopare.

Annuisco distratto, non mi va di parlarne. Assolvevi il sesso come un compito a cadenza settimanale. Ho sentito dire che ora te la fai con uno sposato, ma credo che ci andassi a letto mentre ancora timbravi il cartellino della nostra routine sessuale.

I sei anelli fritti sono ancora nel piatto. Te ne rigiri uno all’anulare sinistro. Alludi a un matrimonio di cui non abbiamo mai parlato: «Non eravamo fatti per questo».

Allungo le chiavi sul tavolo. Le raccogli con gli anelli fritti e metti in borsa. Usciamo con il biscotto della fortuna.
«Presto colmerai un vuoto» leggo. «E il tuo?»
«Devi liberarti di un peso

Ci muoviamo verso il bidone dell’organico. Mi fai cenno di seguirti, poi ti liberi dei calamari.

lamanna alessandra bio

Alessandra Lamanna, 48 anni, è nata a Taranto e vive a Bari. Insegna inglese nelle scuole superiori. Non esce mai di casa senza un libro in borsa, ama addormentarsi leggendo.

guido casamichiela racconto

lo sguardo della mensa

Un racconto di Guido Casamichiela
Numero di battute: 2494

Scrivere a Tania dell’ufficio acquisti un’email contenente la richiesta di ordinare per esempio numero 2 cucitrici e numero 4 scatole di fermagli zincati ricevendo come risposta gentilissimo, provvedo subito, ti aggiorno quanto prima sui tempi di consegna, buona giornata, Tania equivaleva a dichiararsi il reciproco amore. Ne era convinto da un mese, o forse due, al massimo tre: non ricordava da quanto esattamente.

Tutti i pomeriggi, sdraiato sul divano della sala, perdeva tempo a ricostruire le origini di questa sorta di intesa comunicativa clandestina, e intanto inventava dettagli pseudoborgesiani.

«Gentilissimo, provvedo subito.»

Protetto dalla penombra di un vicolo, in un tempo lontano, lui le aveva consegnato un manualetto rilegato dalla copertina traslucida con tutte le indicazioni (anche quelle per farmi capire che non mi ami più, aveva precisato in un bisbiglio che era quasi un singhiozzo); lei l’aveva rifiutato. Era già lontana quando gli aveva sussurrato piano eppure fortissimo lascia i manualetti alle coppie senza intesa, non svilirci, non farlo, non lo meritiamo.

La sera invece i dubbi lo assalivano: e se mi fossi sbagliato? Si chiedeva talvolta, allarmato. Se lei non capisse che dietro ogni mia richiesta di acquisto c’è sempre un ti amo? E se non fosse vero che dietro i suoi procedo con l’ordine c’è sempre un ti amo di più io? Se fosse tutto solo nella mia testa?

Erano allarmi di un minuto, che rientravano non appena si ricordava di come lei l’aveva guardato una volta, alla mensa che frequentavano entrambi pur senza mangiare mai allo stesso tavolo. Si trovavano alla cassa, lei davanti a lui. Stavano per pagare, avevano la tesserina dei buoni pasto nella mano. Lei si era voltata per un attimo e l’aveva fissato, prima di rivolgersi alla cassiera. Gli era sembrato uno sguardo intenso, lei aveva addirittura sospirato, appena appena. Due secondi dopo, lui stava già dicendo a se stesso tieni a mente questo sguardo, tienilo a mente per i momenti sciagurati in cui non sarai più sicuro di niente, e fatteli passare.

Finito l’allarme, non poteva fare a meno di chiederle mentalmente scusa per avere dubitato.

Di solito si addormentava subito dopo che lei, tornata nella penombra del vicolo, dettava le sue dolci condizioni: ti scuso solo se mi prometti che è l’ultima volta, ricorda sempre lo sguardo della mensa, ricorda il sospiro, e non smettere di scrivermi email per richiedere nuova cancelleria, non vivo che per quelle, sette ore al giorno, cinque giorni a settimana, un sabato al mese.

casamichiela guido bio

Guido Casamichiela, cinquant’anni, due cose ama: le bio lunghissime e l’incoerenza.

greco mario racconto

piante da guardia

Un racconto di Mario Greco
Numero di battute: 2445

La nostra casa è piccola, ma in compenso è molto luminosa. Ci sono tre balconi. Su ognuno di questi balconi mia moglie ha disposto un compatto schieramento di piante. In prima linea, ha posizionato le piante da guardia, è così che le chiama lei: catambra, citronella, basilico, lavanda… Mia moglie ha una passione sfrenata per le piante, e ogni volta che la vedo trafficare intorno a esse cerco di immaginare quello che sarebbe stata capace di fare se avessimo avuto la fortuna di possedere una casa con un bel giardino.

Le piante da guardia funzionano, questo è certo. Le zanzare si tengono alla larga. Nostra figlia ancora non ci crede, dice che è impossibile. Non so perché, ma è sempre così scettica su tutto, sta sempre a criticarci. L’abbiamo avuta troppo tardi, è questo il punto. Da ragazzina si vergognava di noi, perché avevamo quasi il doppio dell’età dei genitori delle sue amichette. È da un bel po’ che non abita più in questa casa, convive con un uomo, un poco di buono che un giorno sì e uno no le mette le mani addosso e la minaccia.

Proprio ieri è stata qui, si è presentata nel tardo pomeriggio, tutta accaldata, con una t-shirt indossata al contrario e una piccola tumefazione sullo zigomo sinistro. Mia moglie ha subito incominciato ad agitarsi. «Dimmi che non è successo di nuovo» chiedeva. «Mio Dio, dimmi che non è successo di nuovo.»

«Dimmi che
non è successo
di nuovo.»

«Prima o poi lo ucciderò quel bastardo» ho detto a mia moglie, poco più tardi, mentre nostra figlia era in bagno, sotto la doccia. Ho stretto i pugni. Non so, sicuramente avrò fatto una faccia strana, perché mia moglie è stata quasi sul punto di mettersi a ridere. Nostra figlia ha mangiato un po’, ma soltanto per farci contenti. Qualche spicchio di pomodoro, mezza mozzarella.

Dopo che se ne è andata nella sua stanza, io e mia moglie siamo usciti sul balcone del nostro minuscolo soggiorno. Non c’era un alito di vento. Mia moglie ha preso l’innaffiatoio e ha iniziato a parlare con le piante. Fa sempre così. Tiene l’innaffiatoio in una mano e con la mano libera accarezza le piante e dice: «Avete sete, poverine, avete sete eh?». Questa volta, però, la voce le tremava. E le tremava anche il braccio che reggeva l’innaffiatoio. «Lascia fare a me» le ho detto. «Ci penso io.»

Lei dice sempre che non ne sono capace, che ogni volta combino un pasticcio, tra acqua per terra e schizzi di fango, ma ieri sera sono stato molto attento, e lei non ha avuto assolutamente niente da ridire.

bio mario greco

Mario Greco è nato nel 1959, a Sant’Arsenio, dove risiede. Nel 2011 ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del Premio Chiara per una raccolta di racconti inediti. Nel 2016 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiara (Macchione editore). Altri racconti sono stati pubblicati sulle riviste Tuffi, Carie, Grado Zero, Pastrengo, Rivista Blam, il Mondo o Niente, In fuga dalla bocciofila, Formicaleone, Smezziamo, Quaerere, Birò, Grande Kalma.