Pastrengo Agenzia Letteraria

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racconto Ivan Chioccarello

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Un racconto di Ivan Chioccarello
Numero di battute: 2084

Convento di San Pietro, Treviri, 1944

 

Dall’ostinazione dei motori a elica della Royal Air Force devo dedurre che questa volta l’ordine sia di radere al suolo l’intera città.

Una città di cui rimane ben poco, ormai. Palazzine ridotte in brandelli, fili d’acciaio ritorti dal caldo e alcune statue sfigurate nel volto.

Spingendo lo sguardo oltre la prima cinta muraria, si scorgono anse fluviali trasformate in crateri. Mentre passeggiando lungo i viali, si percepisce l’odore dei tigli mischiarsi con quello dei corpi bruciati: civili stanati dal panico e poi arsi vivi a due passi da casa.

È stato proprio per non fare la loro stessa fine che noi siamo rimaste immobili dove eravamo: al riparo sotto l’unica zona del convento risparmiata dal fosforo.

«Una città di cui rimane ben poco, ormai.»

Qui, dopo esserci spogliate, abbiamo indossato le nostre tuniche bianche e ci siamo distribuite secondo l’ordine prestabilito. Una volta formato il cerchio, ci siamo abbassate, in ginocchio, e abbiamo iniziato a bisbigliare in una lingua che non è la nostra, sussurrandoci all’orecchio delle parole che messe l’una accanto all’altra ci indicano un mondo al di là di questo.

Nel corso degli anni siamo state al centro di molti pettegolezzi. Vedendoci sempre immerse nella preghiera, impegnate a consumare con le dita i piccoli grani in legno di noce che formavano i nostri rosari, c’è chi si è fatto strane idee. Hanno iniziato a chiamarci “esaltate”, “streghe”, “fanatiche”. Ma la verità è che volevamo solo essere pronte; e per essere pronte, abbiamo dovuto passare una vita intera a prepararci per questo momento.

Ma anche tra noi c’è chi dubita, questo non lo nego. Lo si percepisce dai sospiri e dalle mani che tremano. C’è chi si chiede se in momenti come questi, mentre i tetti crollano e le fiamme divampano, non avrebbe più dignità impazzire e accettare il fuoco come unico destino collettivo. E infatti loro moriranno qui, colpevoli di non essere riuscite a temprare il corpo attraverso la fede; prigioniere di un vincolo che le costringerà per sempre a una verità terrena. Mentre noi… noi saremo altrove.

Noi siamo già altrove.

bio Ivan Chioccarello

Bio: Ivan Chioccarello (1996) è nato a Vicenza. Ora vive a Bologna. Alcuni suoi racconti sono comparsi sulle riviste Suite Italiana, Quaerere e micorrize.

racconto De Luca Italia

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Un racconto di Andrea De Luca Italia
Numero di battute: 2038

Mani affogano nelle sabbie mobili di Liszt e cercano ossigeno dove possono. Non nell’avorio consunto del pianoforte verticale di sua nonna, che la lei bambina considerava migliore amico della donna. L’asfittico legno del terzo piano abbandonato racconta ancora storie di quei giorni e irrequieto tanfo di Nazionali.

Giugno le tira i capelli da una fessura nella tapparella incrinata, ma lo sguardo è perso nella macchia nera sulla parete del salotto, nei suoi tragici confini così simile a un neuma. C’è una risposta, in quella fuga di luce, che indugia a rivelarsi – la domanda, d’altronde, è mal posta. Il lungo interrogatorio dura da quando la treccia bruna incorniciava la clavicola e la voce secca della madre di sua madre addolciva le stagioni: suoneresti ancora per me?

Ora la spina dorsale è crocefissa contro il malmesso schienale di plastica di una sedia verde di Leroy Merlin. A ogni sguardo lanciato oltre la tavola armonica, il nero si fa un po’ più vasto, ma tace.

«Giugno le tira
i capelli»

La casa non è più abitata da quasi cinque anni, l’aria vibra ancora acida di pomodoro e soffritto, intriso nel tagliere che da ragazzina usava come leggio. Tiene ancora un po’ la ragione all’oscuro delle proprie intenzioni, così le prime note dell’Étude S.140 No.3 in sol diesis minore sfidano a duello la memoria e i detriti che ingolfano l’ingresso.

Polvere, sul campo di battaglia, che l’afa mastica e sputa tra le crepe del parquet e sotto la gomma dei talloni delle Vans, le stesse che ogni mattina la traggono in una Cariddi di metropolitane e grattacieli.

Metà del brano, la macchia è più grande della sua testa, audace le chiede di duettare, detta il tempo all’affondo maldestro delle falangi. Il crescendo sloga la ruggine nei polsi, slegati dalla mente. La carta da parati, gravida d’orrendi fiori rosa, evapora come un lontano fantasma e un’oscurità nuova di danze divelle il pomeriggio.

Maria è le sue mani che ora ricorda di avere, Maria è i suoi occhi fissi nel muro che scompare, la voragine non ha un cazzo da dire. Ma anche il silenzio suona.

Andrea De Luca Italia

Andrea De Luca Italia nasce a Roma, dopo la fine dell’Unione Sovietica ma prima della vittoria dei Jalisse a Sanremo. Una sua poesia e un suo racconto sono apparsi, rispettivamente, negli e-book Sunday Poets. Il futuro, uno sguardo sul mondo che verrà (La Stampa/40K, 2015) e Domani Ti Scrivo (Mondadori, 2020). Nel 2022 vede la luce stasi inquiete (Eretica, 2022), la sua prima raccolta di poesie.

montonati racconto

dimenticàti

Un racconto di Francesco Montonati
Numero di battute: 2451

«L’anno prossimo mettiamo l’aria condizionata. Eh, gioia?»

L’uomo che lei chiama gioia sta sulla poltrona di pelle con le gambe allungate sul pouf e non sposta gli occhi dallo schermo della televisione. Lei gli passa davanti per andare in cucina. Ha in mano il mocio e il secchio, li porta sul balconcino vicino ai contenitori dei rifiuti.

Quando rientra: «Non c’è un filo d’aria» dice.
«Devo chiamare i ragazzi» fa lui.
Lei si fa aria al collo sudaticcio con una bolletta presa sul tavolo. «Perché?»
«Non mi chiamano mai, e io sono solo.»
«Chiamiamoli, se li vuoi sentire.»

Lui si sistema i pantaloncini tirandoli di qui e di là.
«Ti dà fastidio?»
Lui non risponde.
«Devi bere, gioia. Hai bevuto? Hai lì ancora tutta l’acqua.»
L’uomo che lei chiama gioia beve e posa il bicchiere sul tavolino da caffè.
«Bravo. Ne vuoi ancora?»
Lui scuote la testa.

«Devo chiamare
i ragazzi»

«Devi bere tanto. Lo sai che bisogna bere tanto.»
«Lo dicono sempre.»
«Chi lo dice, gioia?»
Lui non risponde.
«Chi lo dice? Alla televisione, lo dicono?»
«Lo dicono sempre.»
«Chi lo dice?»
«Alla televisione.»

Lei prende il telefono di lui, quello con i numeri grandi.
«Li vuoi chiamare, allora?»
Lui si volta a guardarla. «Chi?»
«I ragazzi. Li vuoi chiamare?»
«No.»
«Hai detto che li volevi chiamare.»
«Mi chiamano loro, se mai.»
«Chiamali tu, se li vuoi sentire.»
«Se mi chiamano, poi li sento.»
«Ti faccio il numero?»

Lui torna a guardare la televisione.

Lei prepara da mangiare e gli lascia il piattino con le zucchine e la mela sul tavolino da caffè. L’uomo che lei chiama gioia mangia in silenzio, senza staccare gli occhi dalla tivù. Si asciuga il sudore sulle tempie con il dorso della mano.

Lei gli ha posato la brocca d’acqua fresca di frigo sul tavolino e adesso è sulla soglia, con la borsetta in mano. Gli dice che va. Che ci vediamo domani.

Lui spegne la televisione e la guarda.

Dei bambini di là dalla finestra urlano dietro un pallone e un’auto cigola frenando, qualcuno impreca. Il vento non si decide a far muovere nulla. Lei è ancora ferma sulla soglia. Lui allunga il braccio a raggiungere il bastone appoggiato alla libreria e si alza traballando. Libri vecchi, tanti libri. Impolverati, dimenticati sugli scaffali. Tra i libri, c’è un lettore che è da anni lì a prendere polvere, di musica qui non ne ascolta più nessuno. Sul lettore, il carillon del matrimonio. L’uomo lo prende e lo osserva passandoselo fra le dita.

«Prima» dice, «ho chiamato la Pina, di là. Non mi ha sentito. Si vede che dorme ancora.»

montonati francesco

Francesco Montonati è nato nel 1976 a Milano, dove vive e lavora come freelance in ambito editoriale. È stato anche musicista e attore, e ha scritto il suo primo racconto a undici anni, ispirato a Edgar Allan Poe. Suoi racconti sono stati pubblicati dalle riviste Blam, Grado Zero e MagO'.

racconto Gianluca Herold

una piccola divinità annoiata

Un racconto di Gianluca Herold
Numero di battute: 2499

Altro che intervenire, l’Assurdità fondamentalmente se ne infischiava, acquattata al calduccio sulla tubatura dello scaldabagno, mentre Stefano sbarrava gli occhi sull’app e non riusciva a farsi una ragione del perché il rider avesse imboccato via Eustorgio invece che Settembrini. Voglio dire, pensava Stefano, che senso ha allungare così, il navigatore fa cilecca ma non lo vedi il pavé, c’è pure il pavé, la cheesecake sarà già un disastro. Stava per addentrarsi nella sezione apposita quando il citofono aveva trafitto il suo sacrosanto proposito di reclamo.

L’Assurdità per un attimo si era alzata sulle sue zampette pelose, si era stiracchiata e aveva teso l’orecchio, ma ovvio che no, era il tizio del secondo piano che aveva dimenticato le chiavi. Così Stefano era tornato alla posizione del rider, che nel frattempo si era spostata sul bordo della darsena. Fermo lì, come se prendesse il sole ciondolando i piedi sull’acqua.

«Altro che intervenire, l’Assurdità fondamentalmente
se ne infischiava.»

Dopo aver ricaricato la pagina dell’app due volte, tre, Stefano si era messo la giacca sopra il pigiama ed era salito in sella al motorino, piegato in avanti come un cane da punta, e così dietro di lui volendo c’era tutto lo spazio per acciambellarsi, e l’Assurdità infatti si era acciambellata.

Comunque la città era piacevole da attraversare a quell’ora, col vento in faccia e quel sole tiepido come un chicco di mais appena scoppiato. Durante il tragitto Stefano cercava di ricordare se la cheesecake potesse smontarsi, forse no, però di certo il pavé non le aveva fatto bene, figurarsi quel sole che adesso picchiava sull’acqua e si sbriciolava come fosse fatto di vetro mentre il motorino veniva sollevato sul cavalletto centrale alle spalle dell’unico rider seduto sulla riva, il cassone da una parte e la bicicletta dall’altra.

Stefano aveva forse pronunciato male il suo nome, e quello si era girato con una lentezza bovina e si era leccato l’angolo della bocca dove brillava ancora uno sbaffo di confettura al maracuja. E lì sì che l’Assurdità era scesa con un balzo dalla sella e aveva preparato la schiena per l’agguato, ma poi Stefano aveva chiesto spiegazioni, perché aveva mangiato il suo ordine, e quell’altro sbatteva gli occhi con estrema sonnolenza e sembrava non capire, salvo poi prendere lo smartphone e digitare sul traduttore singalese-italiano due parole: meglio pistacchio, e poi alzare le spalle.

L’Assurdità era confusa, aveva una gran voglia di alzare una zampa e darsi una pulitina là sotto, sì, provava sentimenti davvero contrastanti.

bio Herold Gianluca

Gianluca Herold è redattore freelance presso BUR Rizzoli. Ha pubblicato articoli e racconti su Lo Sbuffo e Rivista Undici.

Cristina Ferrazzi racconto

due tuorli

Un racconto di Cristina Ferrazzi
Numero di battute: 2467

Decisi di aprire l’uovo appena tornata. Un colpo sicuro e cadde concentrico a olio e sale. Ma o ci vedevo doppio o stavo guardando qualcosa di strano, gli occhi del diavolo. Aprii Google: uovo con due tuorli, si può mangiare? Uscì un solo risultato che diceva 1 su 100 milioni. Punto. Significa che la tua vita sta per cambiare. Fui spaventata. Cosa sarebbe cambiato esattamente? Pensai ai miei difetti più terribili: il corpo sbilanciato a sinistra, il mancato senso d’ironia. Il cane tormentato, e quel padre che tentava di farmi da madre.

I tuorli bruciarono fino a scomparire nel nero. Picchiettai la nuca per riprendere lucidità e gettai tutto nel lavandino. Mi sciacquai le mani. Non volevo più pensare alla sensazione di inadeguatezza che soltanto un evento ordinario, come rompere un uovo, può farti provare. Passai oltre mettendomi a dormire.

Un odore di bruciato mi svegliò di colpo. Tornai in cucina per verificare se le uova fossero tornate integre sul fuoco, ma no, c’era mia sorella. Le chiesi cosa stava facendo e rispose: «Un toast». Mi rimisi sul divano. Con le gambe a terra fissai il soffitto fino a che arrivò a sedersi accanto.

«Perché teneva un uovo in borsa?»

«Cosa mangi?» le chiesi senza guardarla.
«Il toast. Ne vuoi un po’?»
«Non mi sembra l’orario per mangiarsi un toast» dissi.
«Ma si può sapere cos’hai?»

«Mah, nulla.» La guardai. «Oggi. Al supermercato. Ho incontrato una vecchia alle casse. Mi ha chiesto se potessi andare a prenderle delle lenticchie.» Avevo la sua attenzione; il boccone tra i denti rallentò. «Ma non è un po’ bruciato quel toast?»

«No. E poi?»
«Nulla. Sono andata a prenderle e per ringraziarmi mi ha dato un uovo che teneva in borsa.»
«Perché teneva un uovo in borsa?»
«Oddio, non lo so. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’ho aperto e aveva due tuorli.»

In quel momento salì la rabbia con un senso di cedevolezza del corpo. L’uovo mi aveva fatto pensare a cose a cui non volevo aver pensato. Mi sdraiai con il cuscino in faccia come d’estate con le zanzare. Sentivo ancora mia sorella masticare.

«Puoi mangiare più piano? Aaah non sopporto quando mangi!»
«Ma? Tutto qui? Anche a me una volta è successo. Quello che non mi è successo è di trovare una vecchia con un uovo nella borsa, sinceramente.»
Tolsi il cuscino. Volevo delle risposte. «La tua vita dopo è cambiata?»
«No, non direi.» Aveva finito il toast. Si scrollò le briciole dalle mani e andò verso la cucina con il piatto vuoto. Di spalle disse: «Forse se vuoi cambiare ti serve un’idea migliore».

bio Cristina Ferrazzi

Cristina Ferrazzi ha ventiquattro anni e ha studiato Arti del Racconto a Milano. Ha lavorato in una casa di produzione cinematografica e sul set come assistente alla regia. Le sue esperienze si dividono tra cinema e letteratura. Scrive di cose quotidiane.

Muscolino Emanuele racconto

l’ albero

Un racconto di Emanuele Muscolino
Numero di battute: 2470

Cos’era, un sogno? Forse un sogno. Ero piccolo, ero allegro, correvo. Qui nello specchio sono un vecchio. Era un sogno.

Inciampo su una sagoma nera, non è nera, è grigio scura, non è una sagoma, non ha neanche una forma. È un buco, una macchia. Come ho fatto a sbatterci? Passo dritto, non la voglio guardare, rischio di credere che esista davvero. Dio, l’ho toccata, ci ho sbattuto. Torno indietro: è solo una macchia, una macchia fuori fuoco. Avvicino una mano, allungo le dita, non arrivo a toccarla. Riprovo: niente, nessuna consistenza, la mano passa oltre, arriva al pavimento, è liscio come sempre. È ora di fare colazione. Che ore sono? C’è luce fuori?

Nel sogno avevo occhi di un altro colore. Azzurri. Io non ho occhi azzurri. E un segno, un segno sul braccio che non ho. È un sogno ricorrente. Mi rivedo bambino, felice, ma non mi riconosco. Sono io, non posso che essere io. Eppure non mi assomiglio.

«Che ore sono? C’è luce fuori?»

In ufficio posso lacerarmi. È facile, basta afferrare un tovagliolo. Un tovagliolo non taglia, ma la stoffa può diventare ruvida. Basta lavorarci. L’anta scheggiata dell’armadietto mi ha sbucciato il pollice. Un taglio profondo, fino alla carne, un rosso vivido. Come le branchie di un pesce agonizzante, così è il mio pollice.

Vedo alberi di uomini: uomini come rami, neonati come frutti, appallottolati, cadono su un letto di foglie morte. Si alzano, tornano all’albero e si arrampicano: è un vecchio muscoloso l’albero, ha membra cadenti. Scalandolo i pupi si fanno ragazzi; raggiungono il ramo che li ha generati, prendono il posto accanto alla donna: sono adulti. La donna è anziana. Il sole è alto, come quando sono caduti. La donna cade e si fa foglia: anche il sole cade, è notte.

I sogni mi riportano a un passato che non ricordo, ma che mi appartiene. Mi guardo allo specchio a tutte le ore e non vedo i segni di ciò che ero. Rimango al buio, nello sgabuzzino: un buco di un metro per uno, scaffali ovunque, senza spazio per voltarsi. Ci sono cassetti, vani, pertugi tra le cose ammucchiate, spifferi da cui potrebbe uscire qualsiasi cosa.

Madre, se fossi nato con le rughe mi avresti amato?

Sto cercando dentro di me i pezzi del bimbo che vedo la notte. Non li trovo. Non mi appartiene, non c’entra con me, eppure mi somiglia. Ora mi somiglia. Non è demenza, dicono, solo il desiderio di tornare piccolo.

Mi sto preparando a un’altra vita, sto partendo per un viaggio. Ho deciso di andare, sono in ospedale. Dove si nasce e si muore. Io vado a rinascere.

muscolino emanuele

Emanuele Muscolino è nato a Roma nel 1984. Dopo la laurea in Arti e scienze dello spettacolo ha pubblicato il saggio Paradossi della soggettiva. Visione pura e visione-sguardo nella sequenza cinematografica. Ha lavorato come montatore per il cinema e la tv ed è autore di cortometraggi, documentari e reportage girati tra Asia, Africa e America Centrale. Da quando ha letto Gödel, Escher, Bach ha cominciato a scrivere. Un suo racconto è apparso su inutile, un altro è in uscita su Blam.

Andrea Scagliarini racconto

alfonsa y el tango

Un racconto di Andrea Scagliarini
Numero di battute: 2498

Ti chiami Alfonsa e adori il tango. Lo adori al punto da farne una ragione di vita. Non perdi un solo evento dove praticare quel ballo che ti ha sedotta. Ti piace la commedia umana di essere scelta da un hombre. Ami contare i passi di quella musica ipnotica e sensuale. A chi ti domanda se non ti dà noia ballare sempre gli stessi tempi binari rispondi che il tango è diventato la tua malattia perché è durante la malattia che scopriamo quanto sia importante la vita.

Dopo l’incidente che ti ha tenuta lontana da tutti, ricominci una nuova vita più rilassata, più meditata, più consapevole. Ora incedi con un passo lento che tu stessa definisci da funerale. Un funerale a cui sei sfuggita malgrado la tua auto non avesse conservato alcuna forma agli occhi dei primi soccorritori.

«Uno, dos,
tres, cuatro…»

La riabilitazione è un percorso lungo e faticoso, segnato da momenti di angoscia, di forzata solitudine o di silenziosa riflessione sul presente. Allontanato lo spettro di una vita senza camminare, ricominci a pensare ai tuoi progetti, una casa nuova, cibi sani, yoga, eliminare il superfluo, selezionare le amicizie e ritrovare al più presto la via del tango. Uno, dos, tres, cuatro…

Ricominci a contare i passi appena sei in grado di scendere da sola dal letto. Una volta, vieni rimproverata dal medico che ti ha vista ballare nella corsia del reparto. Ma è l’incontro con un giovane bruno a segnare il tuo ritorno alla vita. Di notte, vi ritrovate sempre alla stessa ora. Fumate di nascosto sul balcone. Ridete, scherzate sottovoce. Lui non conosce il tango, tu glielo spieghi anche se balli con una gamba rigida. Piede destro in avanti lui, spalle in linea, piede sinistro indietro. Ora, ti senti una perfetta mujer. Provate semplici passi, senza essere scoperti. Avverti un’intima complicità. Vi promettete di ballare insieme appena sarai guarita. «Ti insegnerò io. Aspettami.»

Dopo alcuni mesi, vi incontrate. Noti subito che lui è cambiato. Lo inviti in una milonga. Lui accetta, ma non ricorda più l’ordine dei passi. È sudato, confuso, stanco, confessa di avere dei problemi. «Non ti preoccupare» gli sussurri. Lui è sempre più distratto, ma non spiega il perché. Esce improvvisamente a fumare. «Aspettami qui.» Lo attendi mentre la musica suona sempre più forte. Vorresti chiamarlo, ma scopri di non avere più il telefono, né il portafoglio. Il tango rimbomba nel salone vuoto. Solo una coppia continua a ballare mentre il barista sbadiglia annoiato. Nella penombra, senza essere vista, inizi a singhiozzare.

scagliarini andrea

Andrea Scagliarini (1961) vive a Torino dove, oltre all’insegnamento nella scuola secondaria superiore, si dedica all’attività di musicista freelance. Ha seguito i corsi di Guido Conti presso Cooperativa Letteraria e di Giulio Mozzi presso La bottega di Narrazione. I suoi racconti sono apparsi sulla rivista letteraria Fuori Asse e, da sempre, insegue la pratica lenta e faticosa della narrazione breve.

racconto racconto di Marta Cristofanini

il bagatto

Un racconto di Marta Cristofanini
Numero di battute: 2494

Sogna che la testa di sua figlia si spacca come un uovo. Ne cola via una materia densa, del colore dei tuorli. Il silenzio si diffonde intorno a lei come una benedizione.

Quando riapre gli occhi, la bambina ha la faccia paonazza e urla. Le gengive nude rivolte verso di lei, il rumore di gola che si straccia, senza sanguinare. È lei, a farlo.

Le sono tornate le mestruazioni. Osserva la macchia che si spande, quel miscuglio di plasma ed emociti intento a corrodere il lenzuolo. Si alza. La bambina è zitta. Sradica il coprimaterasso, lo getta nella vasca sotto l’acqua fredda. Latte, ora, adesso.

Il seno punge mentre la bambina la guarda con occhi di spillo. Vede il suo seno appassire, schiacciato come uva nella bocca sdentata. Le mani grinzose della neonata insistono sulle smagliature, una smorfia di godimento le disfa i lineamenti. Sente i capelli pesanti sulle spalle.

«Latte,
ora, adesso.»

La bambina capelli non ne ha. Chissà se ne avrà tanti. Chissà se sarà una di quelle donne a cui s’intravede la nuca, dall’alto. Da piccola, in cima alle scale del palazzo, avrebbe voluto sputarci sopra.

In piedi, davanti al fornello. Dovrebbe mangiare lei, ora, ora che può, prima che. Sente rumori di suzione concitati, la bambina succhia con prepotenza la propria cavità orale, le gambe scalciano nel sonno.

A nove anni aveva visto una gatta partorire nella casa di campagna. Era riversa nella pozza dei suoi umori, divorata dai cuccioli ciechi, attonita.

Che ore sono, sembra notte. È rimasta in piedi con il frigo aperto, sente freddo.

Apre i cassetti, li chiude. Ancora quel grido, quell’annaspare, è bene che impari che io non ci sarò sempre. Glielo dice fissandola dall’alto, mentre si contorce senza fiato, il piumaggio rado sulla nuca scoperta. Per un attimo si rivede prendere la mira con la bocca piena di saliva.

Luisa capovolse le carte, le disse nulla accade per caso. Se lo ripete la notte, stringendosi le gambe al ventre quando il dolore diventa insopportabile. Il Matto, l’Appeso. L’Imperatrice. Li vede ballare in cerchio, sdentati, le ossa spezzate: l’Arcano del Sole sorge per ultimo, illumina un cavallo bianco con l’infante sul dorso che cavalca verso di lei, in fiamme.

Quando riapre gli occhi, la bambina si è sollevata sui pugni e ride con la faccia sgualcita.

Deve essere davvero notte, ora, perché lui accende la luce mentre chiama il suo nome.
«La bambina ha messo su i denti» gli dice.
Lui si sfila piano il cappotto, con cura lo ripone sul letto.
«Quale bambina?» risponde, senza guardarla.

marta cristofanini

Marta Cristofanini nasce a Genova, e ci ritorna. Si occupa di design conversazionale e comunicazione. Dopo aver passato del tempo (felice) a fare teatro, ora ne scrive su L’Oca critica insieme ad altri pennuti. I suoi racconti sono apparsi su Rivista Blam!, Salmace e su Retabloid nella sezione Atomi.

racconto Mario Greco

flip, flop

Un racconto di Mario Greco
Numero di battute: 2484

Mi ero del tutto dimenticata dell’idraulico. Si presentò intorno alle nove. Un ragazzo grasso, con le braccia ricoperte di tatuaggi. Mi scusai per il disordine che regnava nel bagno. Mi sentivo in disordine anch’io, a dir la verità, con quel pigiamone di flanella addosso, i capelli tutti scompigliati.

«C’è da cambiare la guarnizione» disse il ragazzo.

Una diagnosi veloce e precisa, da vero professionista. Aveva un leggero affanno, teneva la bocca semiaperta e tirava sempre su col naso.  Da un momento all’altro, qualche gocciolina sarebbe caduta giù. Flip, flop. Il suo naso come il mio rubinetto. Quando si piegava, i pantaloni scendevano giù, lasciandogli mezzo sedere di fuori. Mi sarei messa a ridere, se non fosse stato per quei tatuaggi. Tutti quei teschi, quelle croci.

 «Chi è che gioca a calcio?» mi chiese, indicandomi le scarpette sporche di fango buttate in un angolo, a fianco della cesta dei panni sporchi.

«Mio figlio» risposi.
«In che ruolo?»
«Non lo so. In attacco, mi sembra.»
«È fortunato.»
«In che senso?»

«Tutti quei teschi, quelle croci.»

 «Anche a me sarebbe piaciuto giocare in attacco, ma non potevo. Stavo sempre in porta. Non potevo correre, per via della gamba.»

«Che cosa ha la sua gamba che non va?» 
«La sinistra è più corta della destra.»
«Non mi sembra.»
«Guardi, guardi bene.» 

Si mise a camminare in quell’esiguo spazio, col busto eretto, come un modello. Io non notavo niente, nessuna differenza.

«Sono uguali» dissi. «Due gambe perfettamente uguali.»
«Non dica bugie» fece lui. «Zoppico. È così evidente.»

Si stava innervosendo. Si sedette sul bordo della vasca. Avevo l’impressione che si stesse mettendo a piangere. Tirava sempre su col naso. Non so perché, ma mi venne in mente il mio ex-marito che raccontava sempre tutte quelle barzellette sconce sugli idraulici. Si rideva sempre quando c’era lui che si esibiva al centro di qualche tavolata. Un attore nato. L’unica a non ridere ero io. Idraulici, carabinieri. Il solito repertorio, a uso e consumo dei commensali. Mio marito. Mi chiesi, perché, improvvisamente, mi ero messa a pensare a lui. Per non mettermi a piangere anch’io, guardai fuori dalla finestra, ma lo spettacolo non era esaltante. I palazzi grigi, la vicina che ritirava il bucato dallo stendino, il cielo minaccioso del tardo autunno.

Il rubinetto ci richiamò all’ordine. Flip, flop. Il ragazzo prese la sua bella chiave inglese e si mise all’opera.

«Perché non m’insegna come si fa?» gli chiesi. «Non dovrebbe essere tanto complicato cambiare una guarnizione.»

mario greco

Mario Greco è nato nel 1959, a Sant’Arsenio, dove risiede. Nel 2011 ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del Premio Chiara per una raccolta di racconti inediti. Nel 2016 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiara (Macchione editore). Altri racconti sono stati pubblicati sulle riviste Tuffi, Carie, Grado Zero, Pastrengo, Rivista Blam, il Mondo o Niente, In fuga dalla bocciofila, Formicaleone, Smezziamo, Quaerere, Birò, Grande Kalma.

racconto martana

il gorgoglio della terra

Un racconto di Gianfranco Martana
Numero di battute: 2499

Alle 19.34 del 23 novembre 1980 mio padre era a letto, bloccato dal colpo della strega; mia madre in cucina a rassettare; io nel salone col zuppone di latte, davanti alla tivù che trasmetteva la differita della partita. D’un tratto sentii tintinnare la porta-finestra che dava nel giardino e pensai che si fosse alzato il vento; poi vidi il latte agitarsi nella ciotola. Qualcosa mi tremava sotto i piedi, ma non era solo qualcosa, era tutto, e tutto intorno a me. Non era più nemmeno un tremore, ma un ondeggiare e un sobbalzare. “Il treno!” pensai. In paese la stazione non c’era, ma qualche settimana prima mio padre mi aveva detto che presto l’avremmo avuta. Forse quel tempo era venuto e nessuno ci aveva avvisato.

Mio padre! Guardai verso la porta che dava nel corridoio e lo vidi sulla soglia, in vestaglia, in piedi. «Vieni, è il terremoto» disse, con voce assurdamente calma. Gli presi la mano e raggiungemmo mamma, di cui solo ora sentivo le urla.

«Vieni,
è il terremoto.»

Mio padre aveva capito tutto con almeno un minuto di anticipo: era uno con le antenne sensibili. Quando c’era il caffè sul fuoco a un certo punto diceva a mia madre: «Il caffè sta uscendo». «Ma quando mai?» rispondeva lei, ma un attimo dopo potevi già sentire il gorgoglio. Ecco, lui aveva sentito il gorgoglio della terra molto prima di noi.

Uscimmo in strada. Svoltato l’angolo eravamo già in piazza. I lampioni e le nostre povere luminarie di paese erano spenti. Guidati dalla poca luce notturna andammo alla fontana di pietra chiara che si ergeva nel mezzo, lontano dalle case. Altre famiglie affluivano da tutti i lati, come fiumi al mare, precedute da lamenti angosciati. La terra non tremava più, gli uomini sì, di paura e di freddo. Eravamo quasi tutti in pigiama o in vestaglia; qualcuno era riuscito a buttarsi addosso qualcosa di caldo, qualcun altro aveva fatto in tempo ad afferrare una torcia e ora la puntava sugli edifici circostanti per accertarsi dei danni, ora sui compaesani con la stessa intenzione, e ne scandiva i nomi come quando si chiama l’appello.

I telefoni presero a squillare nelle case vuote: erano amici e parenti che chiamavano, appena saputa la notizia dal telegiornale. Nessuno andò a rispondere, e per un po’ restammo zitti e fermi ad ascoltare incantati l’allegro gorgheggio meccanico che quell’anno fu il nostro primo e ultimo concerto di Natale, mentre all’altro capo di quei fili – a Torino, in Belgio, in Germania – i monotoni e interminabili tuuu... tuuu... segnalavano che, forse, eravamo tutti morti.

Martana Gianfranco

Gianfranco Martana è nato a Napoli nel 1971. Cresciuto a Salerno, si è trasferito prima a Brighton e poi a Valencia. È dottore di ricerca in Italianistica. Autore di una quarantina di racconti pubblicati in riviste italiane e spagnole, è stato finalista al Premio Solinas con la sceneggiatura Mammaliturchi! che a breve uscirà in forma di romanzo presso Inknot Edizioni. Il suo primo romanzo è stato Un’opera di bene (Ellera, 2015).