Pastrengo Agenzia Letteraria

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muscolino emanuele racconto

la linea e il cerchio

Un racconto di Emanuele Muscolino
Numero di battute: 1981

C’è una zona d’Italia popolata di turbine eoliche più di ogni altra, dove il vento soffia fino a farti impazzire. Certe sere d’inverno si intrufola come un torrente tra i vicoli dei paesi, zavorra sporte di anziane di ritorno dalla spesa, trasforma in vele cappotti e quotidiani minacciando di sollevare da terra i più leggeri.

Rocchetta Sant’Antonio, Lacedonia, Melfi: un fazzoletto di terra tra Capitanata e Irpinia, dove le pendici appenniniche si inchinano ai viandanti, concedendo un passaggio agevole verso levante, un fazzoletto su cui la neve, a volte, non riesce a posarsi, trattenuta in cielo dal sospiro delle correnti.

«Dal basso
le idolatrammo
come totem.»

Ci arrivammo con le bici sotto una di quelle turbine, a un passo dal pilone, sulla via che dal Salento ci riportava a Roma. Era un pomeriggio d’agosto e stavamo attraversando il confine di ponente del Tavoliere, quando la nostra navigatrice − molto estrosa, bisogna ammetterlo, pur trattandosi di un’applicazione − per farci evitare un tratto a doppia carreggiata, ci fece infilare una sterrata sorvegliata da branchi di cani da guardia con la bava alla bocca (dovemmo difenderci con i clacson e con le pompe), prima di spedirci per un dirupo di sassi.

Le pale le incontrammo al di qua del dirupo, al centro di una piana, circondate dalla terra che zelanti trattori rimestavano sollevando nuvoloni di polvere; scendevano come drappi, senza stridere, producendo a ogni caduta un boato oscuro, e di nuovo si levavano senza peso, come filassero in linea retta (ovvio, invece, che stessero seguendo l’antica geometria del dono).

Dal basso le idolatrammo come totem, come moderne divinità danzanti. Ricordo l’azzurro compatto prima del tramonto e le lame che lo pettinano lasciando una scia impalpabile: la linea e il cerchio, noi col naso all’insù a spiare l’ignoto, in compagnia delle nostre sbiadite ombre, che avevano attraversato quelle lande pochi giorni prima, in senso inverso, tuffandosi incontro all’estate. La strada che va, la strada che torna.

muscolino emanuele

Emanuele Muscolino è nato a Roma nel 1984. Dopo la laurea in Arti e scienze dello spettacolo ha pubblicato il saggio Paradossi della soggettiva. Visione pura e visione-sguardo nella sequenza cinematografica. Ha lavorato come montatore per il cinema e la tv ed è autore di cortometraggi, documentari e reportage. Dal 2023 i suoi racconti e le sue poesie sono pubblicati su blog, riviste e antologie.

racconto ficagna stefano

partenza

Un racconto di Stefano Ficagna
Numero di battute: 2482

Decisi di impiccarmi di venerdì perché il giorno prima c’erano le ultime prove con la band. Il nuovo bassista aveva ancora dubbi su certi passaggi delle canzoni, i ragazzi stavano partendo per un minitour di quattro date e stavolta in dei locali di richiamo. Glielo dovevo, dopotutto: li avevo avvertiti all’ultimo e nessuno aveva fatto storie, anche se era ovvio che gli dispiacesse per il mio abbandono. In tutti i sensi.

Mamma preferì non commentare. Stette in silenzio per qualche secondo quando le diedi la notizia, poi iniziò a parlare d’altro per non litigare. Le uscì solo, a un certo punto della conversazione, un «ma con tutte le cose che potevi fare al mondo», poi si morse la lingua. Capivo il suo punto di vista, con il figlio maggiore all’estero e il minore presto all’altro mondo. Riuscii comunque a strapparle un sorriso prima di chiudermi alle spalle la porta della casa in cui ero cresciuto.

«Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare
sul semplice.»

Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare sul semplice, una proiezione del mio film preferito fra pochi intimi con birra ed erba, ma un amico mi convinse ad andare a uno spettacolo di stand-up comedy. Suo fratello, mi aveva assicurato, aveva riso come un matto prima di tornare a casa per spararsi in bocca. Il comico fu bravo, ma lo frenava un po’ il doversi dividere fra qualche frecciatina sui miei piani a lungo termine e le battute al tavolo di una ragazza dai capelli rossi, che festeggiava la laurea con un gruppo di amiche.

A fine spettacolo la neolaureata si avvicinò, ubriaca e con il tocco ancorato precariamente a una treccia. Mi fece gli auguri, pensando stessimo festeggiando un compleanno: quando le dissi che fra poco non ci sarei più stato fece un sorriso imbarazzato e biascicò un «buona morte» che mi sembrò stranamente sensuale. Era carina e non volevo ci rimanesse male, così ricambiai gli auguri e la salutai con un abbraccio.

A casa brindammo con un whisky che avevo tenuto da parte per le occasioni speciali, tipo sposarmi o fare un figlio, avvenimenti che ormai mi sentivo di escludere. Quando eravamo tutti moderatamente sbronzi ricordai a un’amica di tirarmi giù la mattina dopo, lei fece un cenno con la mano come a dire di non scocciare e lasciai la sala mentre girava l’ennesima canna. Arrivato al piano di sopra salii sulla sedia, infilai la testa nel cappio, strinsi la corda e mentre dal basso mi arrivavano le risate dei miei amici mi lasciai andare in avanti, sentendomi grato per tutto quell’amore che non bastava a tenermi in vita.

Ficagna Stefano

Stefano Ficagna nasce a Novara nel 1979 e nella vita produce bottoni e racconti. Alcuni dei secondi sono apparsi su riviste letterarie come Clean, Split, In Fuga Dalla Bocciofila e inutile. Ha vinto il concorso Romanzo Brevissimo (2021) della casa editrice WoM, alcune sue microfinzioni sono pubblicate nell'antologia multiperso (pièdimosca, 2022), si è classificato secondo all'edizione 2022 del concorso Laventicinquesimaora e ha partecipato alla raccolta Live! (Arcana, 2023). Collabora col sito Read and Play e dal 2020 gestisce il blog Tremila Battute, in cui pubblica racconti brevi ispirati da canzoni del panorama musicale indipendente.

alice cervia racconto

lettera a gabriele

Un racconto di Alice Cervia
Numero di battute: 2466

Ciao Gabriele,
il cane è qui.

Ho pensato a tante diverse introduzioni per questa lettera: ontologiche, etologiche, filosofiche, oniriche, empiriche.
Alla fine però esiste solo un modo per dirlo: il tuo cane è qui.

Ti vedo già che ti gratti un orecchio e pensi come rispondere a un’affermazione palesemente falsa.
Mi scriverai che il cane è morto. Sepolto, ingiardinato, sub-geraniato, pianto e compianto.
Eppure è così.

Avrei potuto mandarti un video. Ma non ho internet, neanche il telefono.
Abbiamo poche cose qui. L’occorrente per scrivere. Acqua fresca e pane.

I cottage sono silenziosi. Per questo motivo l’ho sentito subito. Un uggiolio che sembra una risata.
Sono uscita e ho visto Blek. Blek Macigno, come l’avevi chiamato nonostante le obiezioni dei tuoi figli.
Lui senza ombra di dubbio: pelo, odore, naso umido e cicatrici delle zuffe in strada.
L’ho fatto entrare e ora russa sul divano.

«Ciao Gabriele,
il cane è qui.»

Ho pensato che dovevo scriverti, anche se probabilmente non ti faranno entrare quando dirai di voler venire a prenderlo.
Forse però posso portartelo io, il tuo cane, quando esco di qua.

Naturalmente mi sono posta delle domande. Non dubbi, no.
A parte che i dubbi non si pongono, i dubbi spuntano, germogliano, invadono.
Questa volta però, senti come suona bene per me che non l’ho mai scritto, non avevo il minimo dubbio.
Era il tuo cane. Era Blek.

Niente dubbi ma domande quindi:
Avevi finto che Blek fosse morto per abbandonarlo in autostrada e andartene in vacanza? Escluso. Non sei il tipo che va in vacanza in autostrada.
Blek aveva avuto un episodio di morte apparente e si era scavato una buca verso la libertà a lato dei gerani? Difficile, visto che l’avete cremato.
Quindi Blek, che dorme sul mio divano, è un fantasma.

C’è anche la possibilità che lo veda solo io. Non ho avuto modo di verificare, visto che qui, da giorni non passa nessuno.
Un writing retreat silenzioso, ne avresti riso. Ride anche Bleck, mentre dorme.
Puzza tantissimo, ma puzza di cane vivo. Però di certo è un fantasma.

Ho pensato comunque di avvertirti, nel caso in cui ti facessero entrare.
Così puoi verificare se lo vedi anche tu. Magari lui preferirebbe venire a casa con te e infestare il tuo divano, anziché questo salottino impersonale. Ne sono sicura.

Alice

PS: mentre stavo per imbustare la lettera mi sono accorta che non ho buste né francobolli.
Mi sono anche accorta che nel laghetto in giardino nuota Cip. Il mio pesce rosso di quando avevo dodici anni.
Sento rampicare qualche dubbio.

cervia alice

Nata in Toscana nel 1984, laureata in Scienze Politiche, giornalista prima, video producer poi. Ha pubblicato su Rivista Blam, Coye, Piegàmi, Bomarscé, la nuova carne, Pastrengo, Tits’n’Tales, Cedro Mag, Spore, Salmace, Nido di Gazza, Crack Rivista. Nel 2022 è stata tra i vincitori del premio Short Kipple e del contest letterario Crimen Cafè.

migliorini racconto

nel paese delle case che bruciano

Un racconto di Andrea Migliorini
Numero di battute: 1988

La mattina in cui Piro mi spiegò per la prima volta come si usa un accendino, mia madre e mio padre erano usciti per fare la spesa.
Me lo regali? gli chiesi indicando il clipper. In casa mia non avevamo accendini. No, mi disse, non te lo regalo. Però possiamo andare a comprarne uno.

Piro guidava un 125 della Yamaha. Indossammo i caschi. Seguimmo le strade intorno a Monte Scuro fino a un’uscita che non conoscevo. Vedevo luci chiare, morbide.
Siamo nel paese delle case che bruciano, disse Piro.
Scesi dalla moto. A pochi passi da me, un gruppo di uomini.

Noi bruciamo le case che costruiamo, disse quello che sembrava il capo.
È questo che fate? chiesi. Non potevo togliermi il casco.
Sì.
Costruite case.
Sì.
E poi le bruciate.
Sì, poi le bruciamo.
Guardai Piro. Mi fece un cenno con la testa.
Dove posso comprare l’accendino? chiesi all’uomo.
Lo vidi prendere qualcosa dalla tasca.
Il metallo del clipper era freddo.

«Dove posso comprare l’accendino?»

Mentre risalivamo in moto, chiesi a Piro se ci avesse mai pensato.
A cosa, fece lui.
A bruciare le case.
Quali case?
La tua, la mia. Le nostre case.
Forse, disse. E tu?

Arrivammo. La benzina, quella la prendemmo dal 125: la lasciammo cadere nelle stanze di entrambi i piani. Creammo linee simili a quelle degli aerei quando scatta il segnale di emergenza. Al 3, dissi.

Dalla visiera del casco, vidi la macchina dei miei genitori avvicinarsi alle fiamme. Mia madre portava le buste della spesa. Si intravedeva il tappo del detergente. Mio padre, il palmo della mano rivolto verso l’alto, disse: Comincia a piovere. Sorrise.
Io mi tolsi il casco. Pioveva davvero.

Quando le fiamme si furono calmate, mia madre entrò in cucina per sistemare la credenza: la luce funzionava ancora. Tossì un paio di volte. Si affacciò e ci chiese se volessimo fermarci per cena.
Piro si tolse il casco. Entriamo? disse. Sembrava una domanda.
Quasi mi vergognavo di sentire ancora il metallo dell’accendino nella tasca dei pantaloni. Sì, entriamo, dissi. Entriamo. Fuori continuava a piovere.

Migliorini Andrea Bio

Andrea Migliorini (1997) è convinto di vivere nel Maradagàl. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana e altre riviste. Un suo racconto è stato pubblicato in un’antologia curata da Wu Ming 2. È co-fondatore di Coye – Periferie Letterarie e scrive per Hypercritic. Ha collaborato alla curatela del numero 40 di Stratagemmi – Prospettive Teatrali.

Vincenzo Giuffrida racconto

hey

Un racconto di Vincenzo Giuffrida
Numero di battute: 2484

Hey, ciao
Come va?

Controllo il suo profilo. Nella foto, mutande usurate e addominali scolpiti, sotto a una testa mozzata.

Rispondo:

Bene. Tu?

Bene grazie. Cosa cerchi?

Sex. Tu?

Mette un like al mio ultimo messaggio, ha l’aspetto di una piccola fiammella sopra la parola Sex.

A o P?

P
Tu?

Compare una fiammella sulla P. Mi risponde con una foto del suo cazzo. Metto un like. La fiamma arde sopra la punta del suo pene.

***

Sono qui

Non ti vedo

Maglietta nera, zaino rosso

«Piacere Marco.»
«Luca, piacere.»
«Tutto bene?»
«Sì, bene. Tu?»
«Bene, grazie. Saliamo da me?» Mi appoggia una mano dietro la schiena.
«Sì, certo.» Gli accarezzo pure io la schiena.

Il fisico è come in foto, tonico, e coi capezzoli piccoli. Mi sfilo la maglietta, le mutande; lui è già sdraiato sul materasso. Mi metto carponi sul letto e comincio a succhiare. Ogni tanto lo guardo. Quando lo faccio, mi accarezza i capelli.

Mi distendo al suo fianco. «Vuoi scopare?» Annuisce. Prende un cuscino e lo mette sotto il mio sedere. Resto immobile, con le gambe divaricate, guardando il soffitto.

Lo sento strofinare tra i glutei, cercando il mio buco. Stringo il lenzuolo, mentre lo sento spingere a vuoto. Sul volto ha un’espressione contratta. «Lo hai mai fatto?» mi chiede.
«Sì, è solo che.»

Mi rigira su un fianco, mi solleva un poco una gamba. Con la pancia schiacciata contro il materasso, guardo il copriletto bianco e la sveglia che segna l’una e quaranta.

Lo sento ansimare per lo sforzo. Mi rimette a pancia in su, mi afferra dai glutei, affonda la faccia tra le mie chiappe e comincia a leccare.

Mi solleva le gambe verso l’alto, mi sale di sopra e spinge forte. Sento come una piccola esplosione interna, un bruciore intenso. Mi aggrappo alle sue gambe, gli dico di fermarsi. Sfilandosi, si accascia al mio fianco.

Di profilo ha un naso piccolo e adunco. Con la mano, gli asciugo il sudore che ha sulla fronte. Ci baciamo, mentre veniamo entrambi sulla mia pancia. Mi pulisco con della carta, cerco le mutande, i pantaloni; noto una macchia di un rosso sbiadito sopra il lenzuolo. Lo sento nel bagno sciacquarsi con l’acqua.

«Ciao, grazie» dice aprendomi la porta, salutandomi con una pacca sulla schiena. Metto lo zaino sulle spalle, esco dal portone, l’aria è fresca, il marciapiede vuoto; osservo un’auto passare. Decido di chiamare un taxi, invece di camminare.

Mentre aspetto, il mio cellulare vibra dentro la tasca dei pantaloni. È un messaggio da parte di MxM XL. Ha dei pettorali scolpiti, ricoperti di pelo:

Hey ciao
Cosa cerchi?

Vincenzo Giuffrida

Vincenzo Giuffrida nasce in una casa del Sud ma si trasferisce lontano, dove vive con il suo animale domestico, una piantina di nome Exelor, e un abbonamento Netflix di tipo Premium. Da anni discrimina i romanzi a favore delle raccolte di short stories.

racconto valeria belardelli

mattonelle

Un racconto di Valeria Belardelli
Numero di battute: 2490

Sotto la schiena, il pavimento era molto più freddo di quanto le fosse mai sembrato sotto ai piedi nudi.

E se non fosse più riuscita a rialzarsi? Sarebbe rimasta lì, mentre le ore passavano e diventava buio, una vecchia nuda su un pavimento di mattonelle verdi. Vecchia. “Anziana” le sembrava una minestra riscaldata, un termine senza forza. “Vecchia”, invece, era una signora che brandiva un bastone e colpiva sulla testa chi le dava fastidio, era un braccio nodoso che apriva senza sforzo la macchinetta del caffè.

Lo odiava, quel verde chiaro delle mattonelle, l’aveva scelto Giuseppe. Lei le avrebbe volute blu notte, ma al negozio delle mattonelle lui l’aveva guardata con quella sua solita espressione gentile e dispiaciuta e, come sempre, non aveva saputo dire di no. Così, per quasi cinquant’anni, aveva visto quel verde chiaro ogni giorno.

Sbadigliò. Chissà che cosa sarebbe successo se si fosse addormentata. Se le fosse successo qualcosa Antonietta sarebbe stata la prima a scoprirlo nella sua chiamata delle otto e quarantacinque. Se non le avesse risposto al telefono si sarebbe presentata lì, insieme a Luigi, se non era già partito per il mare con le bambine.

«E se non fosse
più riuscita
a rialzarsi?»

È vero, non correva alcun rischio di restare lì nuda e di sentirsi male, c’era la telefonata delle otto e quarantacinque di Antonietta. Era quasi un peccato. Le era preclusa anche quell’ebrezza, quel brivido di rischiare. Come era stata tutta la sua vita accanto a Giuseppe. Lui non aveva mai rischiato, mai una volta che fosse andato a più di cento all’ora in autostrada, mentre lei, invece, avrebbe voluto mettere le braccia fuori dal finestrino, sentirle tirare via per il vento e pensare “magari succede qualcosa”. Giuseppe la guardava sempre con i suoi occhi gentili e dispiaciuti e le chiedeva: «Ma che succeda cosa?». Per Giuseppe, qualunque cosa era già qualcosa. Fino alla sua morte, un qualcosa più grande di tutti.

Uno spiffero più freddo entrò dalla finestra. Doveva alzarsi da lì, o sarebbe morta anche lei. E non ci teneva, adesso che aveva un po’ di libertà.

Si appoggiò alla vasca e si tirò su. Senza cadere. Fuori dalla finestra arrivavano rumori di pentole e piatti, e la sigla del telegiornale dall’appartamento dei Franchi. Aprì il vetro.

Il vento le arrivò sul viso, la prima aria d’estate. Alzò le braccia per prenderla tutta. E si ricordò di essere nuda. Invece di coprirsi, però, iniziò a ridere. “Una vecchia nuda che ride!” immaginò dire dalle altre finestre aperte. Rise ancora più forte.

Belardelli Valeria Bio

Valeria Belardelli è nata a Roma nel 1990. Ha studiato Drammaturgia a Londra e ha partecipato a vari progetti drammaturgici in giro per l’Europa. Per anni ha fatto l’attrice, ora scrive, è iscritta a una magistrale in Italianistica e insegna Inglese ai bambini. Due suoi pezzi brevi sono stati pubblicati sul Foglio. Scrive ogni settimana un blog, pandipanico, che viene ripubblicato dalla rivista Aware – Bellezza Resistente. Nel resto del tempo fa l’attivista di Fridays For Future, per cui, tra le altre cose, cura un blog sulla rivista Rewriters. 

Francesco Rago racconto

la capsula del tempo

Un racconto di Francesco Rago
Numero di battute: 2427

Sotto casa mia c’è un bar che è una specie di capsula del tempo, se ci entri finisci che ti ritrovi scaraventato una cinquantina di anni indietro, per via dei tavoli verde acqua in formica, dei tendaggi damascati alle vetrine, del manifesto del Biancosarti incorniciato e appeso alla parete dietro al bancone. A qualsiasi ora del giorno e della notte tu ci vada, stai sicuro che seduto al solito tavolo con un White Russian in mano e il sorriso obliquo di chi non c’ha tutte le rotelline a posto, c’è un tipo coi baffi e la erre moscia che si fa chiamare Pruzzo.

Che io una volta gliel’ho provato a chiedere: «Ma perché ti chiamano Pruzzo?».
Lui si è lisciato i baffoni e mi ha risposto: «Perché da piccolo tifavo Roma».
«E vabbè, ma che c’entra? Io tifo Inter ma mica mi chiamano Rummenigge.»
«A te no, a me sì.»
Argomento chiuso con una scrollata di spalle. La scrollata di spalle è un po’ il suo marchio di fabbrica: dopo una o due frasi te ne butta sempre lì una.

Io questo Pruzzo un po’ lo invidio perché riesce a campare senza fare nulla tutto il giorno, l’unica sua occupazione è quella di stare seduto al bar, roba che io se fossi in lui lo scriverei proprio sulla carta di identità. Professione: cliente del bar.

«Ma perché ti chiamano Pruzzo?»

A me invece tocca lavorare per mantenermi e oggi in ufficio ho avuto una giornatina pesante, con il mio capo che pretende sempre di fare le cose di testa sua, il problema è che lui è una testa di cazzo e così poi capita di dover fare dei lavori alla cazzo. Abbiamo bisticciato e mi sono dovuto trattenere dal mandarlo a cagare, solo che poi mi è rimasto addosso il nervoso e ho pensato che è meglio se rimango a distrarmi un po’ in giro. Ho mandato messaggi a mezza rubrica per trovare qualche faccia amica con cui fare un aperitivo, ma tutti a quanto pare sono impegnati: chi c’ha la moglie, chi c’ha l’amante, chi c’ha la palestra, chi c’ha il cane da portare a spasso.

Così mentre parcheggiavo ormai rassegnato ho avuto il colpo di genio di affacciarmi al bar a vedere se c’era Pruzzo. Ovviamente c’è.

«Ehilà» gli faccio.
Lui ricambia il saluto soffocando un rutto.
«Che si dice?»
Scrolla il testone.
Certo che parlare con ’sto tipo ti dà una soddisfazione…

Ordino una birra in bottiglia e me la bevo a collo, perché ho l’ansia di prendere il colera ad appoggiare le labbra a uno di questi bicchieri del secolo scorso.

«Allora?» lo incalzo.
«Uè cocco, se ti va c’ho due biglietti per i Creedence Clearwater Revival.»

bio Francesco Rago

Francesco Rago vive e scrive a Piacenza. Laureato in Scienze della Formazione, attualmente si occupa di formazione professionale presso una società del settore. Ha pubblicato i romanzi Reality 5.0 (Booktribu), Cani Malati in Val Padana (Ultra), Come ti calpesto il cuore (Ferrari), Grandine (La Gru), più numerosi racconti sparsi tra riviste e antologie.

racconto Comandè

minuzie

Un racconto di Doriana Comandè
Numero di battute: 2354

Da un giorno all’altro, lei cominciò a conservare buste. Ogni tipo di busta. Quelle neutre e biodegradabili, i cui manici non sopportano alcun peso. Quelle più robuste, con il logo di una grande catena di supermercati stampato sopra. Quelle di carta del banco pane o della gastronomia.

Lui se ne accorse solo quando aprì un cassetto della cucina e lo trovò stipato di buste ripiegate.
«Che devi farci?»
«Possono servire.»
Infatti, servivano. Lei le utilizzava per la spesa, per la pattumiera, per raccogliere giornalmente gli escrementi del gatto dalla lettiera.

Lui ci mise un po’ prima di registrare alcuni piccoli cambiamenti nel loro stile di vita. Tutte quelle buste accuratamente conservate. Mai un alimento scaduto nel frigorifero, cosa che prima accadeva di frequente, vuoi per distrazione, vuoi perché mangiavano spesso fuori. I volantini delle offerte al supermercato, conservati anche questi. Le camicie stirate senza che in casa spuntasse mai fuori una sola ricevuta della lavanderia.

«Da un giorno all’altro, lei cominciò a conservare buste.»

Era strano, perché, da quando aveva perso il lavoro, lui stava in casa quasi tutto il giorno, a setacciare siti di aziende, a mandare email a destra e a manca. Eppure, non si era mai accorto che lei stirasse le camicie (aveva sempre odiato farlo) o che avesse eliminato una serie di piccoli lussi di cui, tutto sommato, lui non sentì mai davvero la mancanza (forse perché la loro eliminazione era stata così furtiva e graduale).

Una sera, annebbiato dalle troppe ore passate davanti al pc, entrò in sala e la trovò sul divano che leggeva.
«Non guardi una serie su Netflix?»
Lei abbassò il libro: «Ho disdetto l’abbonamento un paio di mesi fa». E davanti all’espressione sbigottita di lui, aggiunse: «Tanto non c’era quasi mai niente che valesse la pena vedere».

Fu l’unico momento in cui l’idea che stessero vivendo in un regime di ristrettezza gli sfiorò la mente. Ma sembrava che fosse tranquilla e, rassicurato, lui si stropicciò gli occhi e tornò davanti al pc.

Esattamente sette mesi dopo, lui trovò un nuovo impiego.
«Ma come abbiamo fatto a cavarcela per tutto questo tempo solo con il tuo stipendio?» le domandò stupito mentre una leggera euforia alcolica, dovuta al costoso vino che stavano bevendo per festeggiare, dilagava in lui.
Lei gli fece segno di versarle un altro po’ di vino. «Il trucco» gli rispose, «è che almeno uno dei due non se ne accorga.»

foto comandè

Doriana Comandè è nata a Roma quarantasei anni fa. Dopo la laurea in Storia e Critica del Cinema, con una tesi su Ingmar Bergman, ha scritto saggi sulle serie tv e fatto interviste a giovani registi indipendenti. Poi è diventata un’insegnante di scuola superiore, lavoro che ama quanto la scrittura. Ha pubblicato alcuni racconti. L’ultimo, Un’amena visita in psichiatria, è uscito su Rivista Blam!

piacentini federico

l' oblò

Un racconto di Federico Piacentini
Numero di battute: 2497

Sollevo la massa informe che mi attorciglia il braccio. Qualcosa cade in terra mentre apro la porta e mi avvicino alla macchina. Quando mi volto sembrano pezzi di un corpo setoso. Un calzino qua, una mutanda là. Colori diversi che escono dalla massa che trasporto fino alla bocca rotonda che li deve inghiottire. Nel mondo c’è sempre dello sporco da lavare, come l’anima nera delle persone. Il lezzo deve essere occultato, il fetore, le patacche di unto, di sangue, di ceree secrezioni umane, di cheratinici filamenti scuri provenienti da mascelle, crani e arti.

Infilo la massa di tessuto intrecciato nella bocca rotonda. Sento come una leggera pressione negativa, come un risucchio. Come se anche io fossi lercio. E di certo lo sono dopo quello che ho fatto. I panni di noi due usati per l’ultima volta cadono dentro nella loro informe crespatura di cotone.

«Nel mondo
c’è sempre dello sporco da lavare.»

Mi alzo e raccolgo i pezzi caduti. Cotone liso, lana infeltrita. Me li rigiro tra le mani con ripugnanza e li getto nella bocca. Chiudo l’oblò, inserisco il sapone, materia bianca di purità assoluta che viene a mondare il mondo, a detergere il tergo, a risciacquare l’acqua sporca di macchia. Premo. La macchina carica un lamento come fosse irritata di essere svegliata dal torpore. Cala acqua sulla superficie levigata dell’oblò che trattiene tutto lo sporco del mondo.

D’un tratto vedo un punto grigio all’interno del vetro. Mi chino. Una mosca. Una piccola mosca ignara. Provo ad aprire il portellone ma è chiuso in una univoca e crudele scelta temporale di lavaggio. La mosca inizia a girare insieme alla massa mentre scure gocce la fanno scivolare. La massa e la mosca diventano un unico vortice grigio di rotazione come il viso di lei mentre mi allontanavo.

Mi dispiace. Più di quanto credessi. La mosca non meritava questo: non era sozzura umana come me, come noi, ma solo una mosca. Mi allontano e mi accorgo che la porta della stanza adesso è rotonda. La spingo ma non si apre. È formata da uno spesso strato di vetro da cui riesco a percepire il mondo esterno anche se distorto.

Provo ancora a forzare ma niente. Un brontolio in sottofondo e l’acqua inizia a cadere intorno a me dal soffitto. Mi si bagnano i vestiti come quando l’ho lasciata. La sua figura sfocata fuori dall’oblò. Il pavimento inizia ad allagarsi, batto sul vetro, gli urlo contro, impazzito. Ma all’improvviso capisco. Mi ha chiuso qua, del resto me lo meritavo. Fuori la sua silhouette melliflua se ne va, svanisce chissà dove mentre tutto comincia a ruotare.

Piacentini Federico

Federico Piacentini nasce in Toscana. Laureato in Medicina e chirurgia esplora da anni il mondo della scrittura. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come Quaerere, RivistaBlam!, ILDA. Sta lavorando al suo primo romanzo.

melampo racconto

il dito

Un racconto di A. Melampo
Numero di battute: 2494

Un dito.
Abbandonato tra la scatola del cambio e il sedile del passeggero.

Aveva sentito un piccolo tonfo sordo mentre aspirava gli interni della Modus color miseria della Signora Parisi. Poi il sibilo sforzato dell’aspiratore, una specie di patetica asma. Sfilando il bocchettone da sotto al sedile, una roba rosata e molliccia era caduta sul tappetino, macchiandolo appena, per poi rimbalzare sull’asfalto del parcheggio.

Come assalito da un insetto, Sangeij era arretrato con un balzo. Il piede gli era rimasto incastrato nel tubo di plastica dell’aspiratore ed era finito culo a terra.

Da quella posizione, aveva osservato la piccola presenza aliena. Un dito mozzato. L’anulare, pensò, ma non avrebbe saputo dire perché. Il taglio era talmente netto che pareva fosse stato ghigliottinato. Il poco sangue alla base, per lo più secco, faceva intendere che fosse lì da un po’.

«L’anulare, pensò, ma non avrebbe saputo dire perché.»

Si sollevò dall’asfalto, entrò nell’ufficio e si procurò un sacchetto di plastica, di quelli per il ghiaccio, con la chiusura ermetica. Scrostò un po’ di brina dal frigo delle bevande e la versò nel sacchetto, riempiendolo per un quarto. Quindi, prese un pezzo di carta assorbente e tornò nel parcheggio. Il dito era sempre lì, una specie di lunga larva rosa nel grigio triste del pomeriggio, vicino all’auto con le portiere aperte. Lo raccolse trattenendo un moto di disgusto e lo inserì nella busta. Rientrò nel negozio e depositò il sacchetto dentro al frigo, tra le scatole dei gelati. Poi tornò all’auto e riprese il suo lavoro.

La Signora Parisi arrivò alle quindici in punto.

Era un’ottantenne elegante e cortese, che profumava di talco. Portava cappellini ridicoli e fuori moda. Al collo, appeso a una cordicella dorata, teneva un paio di occhialetti ovali che nessuno le aveva mai visto indossare.

Salutò Sangeij con un sorriso affettuoso, chiese notizie della piccola Amany e poi pagò i dodici euro del lavaggio, estraendo le monete dall’enorme borsellino.

Si congedò con gentilezza e fece per uscire dal negozio. Arrivata alla porta, indugiò per un attimo. Poi si voltò e tornò al bancone, dove giacevano dimenticate le chiavi della Modus. La signora allungò la mano per afferrarle. Una mano lucida, la pelle sottile come carta velina. Una mano a cui mancava un dito, mozzato alla base. L’anulare.

«Stavo dimenticando queste» disse con un sorriso ingenuo. «Sarei capace di perdere pure la testa, se non l’avessi attaccata al collo.»

Quindi uscì dal negozio, accompagnata dal suono del campanellino appeso alla porta.

A Melampo bio

A. Melampo vive in un piccolo borgo nel Nord della Toscana. Scrive canzoni e racconti. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo.