Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Marzo 2018


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il reduce

Un racconto di Giacomo Proia
Numero di battute: 2470

Sei anni in prima linea.
72 mesi di combattimento.
2.190 giorni di resistenza al freddo dei climatizzatori e al caldo dei termosifoni.
52.560 ore di duelli con persone che non conoscevo, delle quali non mi importava nulla e alle quali non interessavo.

Ogni mattina il frastuono della produttività mi strappava dalle calde braccia del sonno, mi sbatteva fuori dalla porta e mi ammassava su carri pieni di bestie ben vestite che avanzavano operose ad affrontare il giorno. La sera mi rifugiavo nel tepore di una casa provvisoria, saziato a malapena da pasti frettolosi.

Poi ho iniziato a combattere. Fronteggiavo la mia alienazione frequentando persone di spessore a giorni alterni: tennis il lunedì, cinema il mercoledì, pizza il venerdì, teatro il sabato, museo la domenica. Poi le cene, quante cene! Incontri sotto le stelle del jazz che si trasformavano in gare di dibattito a colpi di serie tv e cultura, ma soprattutto serie tv.

Quando ho preso un giorno di malattia per finire una serie in tempo per la cena in programma la sera stessa, ho capito che era finita. Ho fatto i bagagli e ho preso congedo.

«Poi ho iniziato
a combattere.»

Ora dirigo un centro di riabilitazione psicologica per reduci. Facciamo due incontri settimanali. Si sta bene insieme, condividiamo i nostri racconti del fronte, c’è modo di riflettere e anche di divertirsi. I ragazzi sono appena tornati e hanno ancora molti problemi da risolvere, ma sono sulla via del recupero.

Filippo, 28 anni, ex-copywriter junior, riesce a addormentarsi solo lasciando in sottofondo una registrazione sonora di dieci ore del traffico di Manhattan che ha trovato su YouTube. Massimo, 35 anni, avvocato penalista, si sveglia in piena notte esclamando: «Cosa danno al cine oggi?»; è stata sua moglie che si è rivolta a me per un aiuto. Lucia, 31 anni, segretaria di uno studio dentistico, è venuta a trovarci dopo che, con la macchina in panne in piena notte, ha cercato un’auto in car sharing in piena campagna: la più vicina era a 121 chilometri, circa venti ore di cammino. Ugo, 43 anni, ex-dirigente di azienda, ha aspettato per una settimana il tram seduto su una panchina nella piazza quasi deserta del paese.

Sono casi difficili e la via del recupero è tortuosa: lo so bene io, che non sono ancora completamente guarito. Confesso che ogni tanto non resisto e segretamente torno in città. Andata e ritorno in giornata. Troppa è la voglia di camminare in mezzo a una miriade di sconosciuti, grande è il sollievo nel non dover salutare nessuno.

Giacomo Proia2 (1)

Giacomo Proia è nato a L’Aquila la notte di Halloween del 1986. Musicista e scrittore. Un suo racconto di cento parole è stato pubblicato su La Repubblica nel 2017. Scrive di musica e cultura per le riviste Il Cartello e The Trip Magazine. Ha prodotto e pubblicato due album come cantautore chiamati entrambi proia. La sua raccolta di racconti Ordinari Imprevisti sarà pubblicata a breve da Bookabook. 

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senza fiato

Un racconto di Luigi Carrozzo
Numero di battute: 2303

Luca non poteva sapere, steso sull’asfalto umido, quella notte in cui i genitori lo credevano in camera a dormire – domani c’è scuola, hai già perso due anni, se vieni bocciato anche stavolta... –, sgattaiolato via solo per fumare un po’ con Haidar nel parcheggio del supermercato, non poteva sapere, Luca, quando rintronato ed euforico l’amico gli aveva proposto: «Perché non sganciamo un carrello e lo usiamo come slitta?», quando i loro schiamazzi avevano attirato l’attenzione di Amir, il pusher di zona, in quel momento strafatto di yaba, accompagnato da un paio di balordi suoi pari, tutti animati dalle peggiori intenzioni, e mica li aveva visti lui, avvitato su se stesso come un feto nel ventre mentre il carrello sferragliava facendo un fracasso infernale,

non poteva sapere, Luca, vedendo avvicinarsi quei poco di buono, un ghigno selvaggio dipinto sul grugno e una lama che baluginava al chiaro dei lampioni, non poteva sapere, mentre i gradassi sbraitavano come visigoti al saccheggio di Roma – e quel vigliacco di Haidar si era già dileguato, correndo fino a spaccarsi i polmoni –

«Non poteva sapere, Luca.»

mentre i tre lo disincagliavano dal carrello, lo sollevavano di peso, lo schiantavano sull’asfalto e cominciavano a tempestarlo di calci e la lama controluce saettava in direzione della sua coscia, penetrava veloce, dolorosa, nella polpa del muscolo, recideva l’arteria femorale e infine, con la stessa rapidità, veniva estratta – il sangue che zampillava e, dio, quanto ne veniva fuori, un’orripilante cascata, talmente tremenda e inaspettata che anche i tre, atterriti, se l’erano data a gambe –, ebbene Luca non poteva sapere quanto fosse dolce morire, lasciare che il pensiero sdilinquisse, sentire con lentezza i dolori che cedevano il passo alla serenità e convincersi che in fondo era meglio così, per lui che avrebbe cessato di patire gli efferati tormenti dell’adolescenza e per i suoi genitori che non avrebbero mai più sofferto per la sua inettitudine, era meglio così, si disse, con gli occhi ciechi che tuttavia indirizzavano lo sguardo al di là della coperta di nuvole buie, oltre la troposfera, nella piena contemplazione dello spazio siderale, lontano anni luce, così distante da valicare le soglie del tempo, dove fine e origine di tutto convergono in un unico spaventoso e magnifico punto.

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Luigi Carrozzo è nato a Salerno nel 1975. Ora vive a Milano. Da anni lavora nel mondo dell’editoria. Ha collaborato con numerose redazioni editoriali (Feltrinelli, Kowalski, Rizzoli, Bur, Chiarelettere) ricoprendo vari ruoli: traduttore, ghost writer, editor, redattore. Suoi racconti sono stati pubblicati su diverse riviste e antologie. È autore del romanzo Piccola odissea di un erotomane (Lite editions, 2013).

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garage-fono

Un racconto di Marta Cai
Numero di battute: 2483

Di scendere dall’auto non aveva voglia, di fare da solo nemmeno. Suonò il clacson.

Eh.
Scendi pa’. Non ce la faccio.
È l’una, arrangiati. Non suonare. Svegli tutti.
Aiutami, dài. È stretto.
Hai bevuto?
Una Coca.
Drogato?
Pa’!
Allora ce la fai. C’è l’Indianapolis.
Ah già. Chi è partito in pole?

Perfino dell’Indianapolis si era dimenticato, d’altronde la situazione era grave sin dal mattino. Figurarsi come arrivò a sera, rotolando da un messaggio a una telefonata, tacendo solo all’ora dei pasti, coinvolgendo persone terze, addirittura Google. Un pallone, non una pista di asfalto era diventata la situazione.

Márquez.
Tsk.
Eh.
Scendi, dài. È stretto. Mengacci ha di nuovo parcheggiato male.
Stai lì.
Dove vai?

«Allora ce la fai.
C’è l’Indianapolis.»

Il telefono vibrò. Se era Alessia, non avrebbe risposto. Magari l’emoji di un bacio gliel’avrebbe ancora concesso, non di più. Basta, lei e suoi capelli biondi, la sua faccia stretta da cavallino buono. Lo aveva prosciugato e lui voleva solo salire in casa. Insisteva la vibrazione. La prima volta aspettò che si stancasse, la seconda afferrò il telefono perché dire no lo affaticava più che dire sì.

Sì?
Sono io, cretino. Sono sul balcone. Metti il vivavoce.
Ti vedo!
Tira su la saracinesca. Chiudi gli specchietti. Manco quello hai fatto.
Fatto.
Vedo, son mica cieco. Adesso retro tutto a destra. Vai vai vai. Bon. Avanti sinistra sinistra. Bon. Troppo. Cazzo.
Cosa? Ho toccato?
Zitto!
Dove, dietro o di fianco?
Vale, è caduto.
No, cazzo. Male?
È in piedi. La moto no però.
Troppi infortuni.
Poi la storia delle tasse. È arrivato pieno di stress. Alle prove una guida tesa, senza tiro. Vabbe’. Retro destra. Piano. Stop. Adesso ti infili come un coltello nel burro. Márquez è in forma. Quest’anno le Honda sono forti.

Pa’?
Oh?
L’Alessia è incinta.
È tuo?
PAPÀ!
Lì sei riuscito a entrare, eh. I suoi lo sanno?
La madre.
Il padre?
Mi ammazza.
Ma va’. Ti trova un posto al concessionario.
Io non so se la amo.
Oh, Vale è ripartito! Recupera, fidati.
Io non sono pronto…
Pronto?
Pronto? Son qua, mi senti?
Pronto nel senso che non vuol dire niente essere pronto! Uno parte, poi vede, Madonna se sei scemo. Chiudi tutto e vieni su, a Márquez gli facciamo un culo così!

Ma sì. Preferiva le moto, però anche le macchine gli piacevano, fin da piccolo. Le metteva in fila e giocava al concessionario. Questo da piccolo. Adesso che era diventato grande aveva fatto un piccolo e poteva avere un concessionario vero. Suo padre lo aspettava sul divano, poverino senza i denti davanti. No, lui i denti li avrebbe curati di più.

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Marta Cai (1980) vive in provincia di Cuneo. Lavora per diversi editori come traduttrice e redattrice, ogni tanto scrive racconti, alcuni sono usciti su inutile. 

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balene bianche

Un racconto di Gianluca Ferrittu 
Numero di battute: 2494

Era Natale e nessuno dei due capiva bene il motivo per cui erano lì. Luciano sentiva il vento salmastro scivolargli tra i capelli e udiva da lontano le onde infrangersi sulla battigia.
L’enorme carcassa si stagliava immobile sulla spiaggia. Sprofondava nella sabbia umida e scura e l’acqua, spinta nelle onde, la sfiorava appena.
Ora che Luciano fissava l’animale pensò che fosse la prima balena che vedeva in vita sua. Oltre a loro, Platamona era deserta e il vento continuava a sbuffare tagliente sul Golfo.

«Da quanto hai detto che è qua?»
«Un mesetto tutto. Forse un po’ di più.»
«E come ha fatto?»
«Speronata. A largo. E poi le onde e le maree ed è arrivata qui.»
«E non la spostano?»
«No. Cioè, ci hanno provato, ma non sanno chi è che deve farlo.»
«Dovrebbero muoversi.»
«Già.»

Luciano sentì un brivido di freddo per il vento. Perché erano lì? Sfiorò la carcassa della balena con un piede e lo ritrasse. Poi suo fratello gli girò attorno in cerca del muso. Guardò per un po’ gli occhi chiusi e privi di vita dell’animale e nessuno dei due disse niente.

«E se la bruciassimo?»

Luciano guardò la balena e la immaginò nuotare verso la superficie. La pensò mentre veniva colpita e cadeva a fondo. La immaginava sanguinante e la nave che si spostava per l’urto e le onde che la trascinavano a riva.

Luciano diede un’occhiata alla spiaggia e al mare attorno e poi di nuovo alla carcassa e a suo fratello. Da quando entrambi i loro genitori erano scomparsi, il Natale non era più sacro. Non tornava a Porto Torres da allora e adesso che lo aveva fatto c’era una balena morta. Si sentiva stanco, come se fosse un suo problema. Suo fratello disse qualcosa a proposito di un geologo e un archeologo che avevano chiamato per spostare la carcassa. E poi più nulla.

Luciano si disse che tutto si riduce sempre a poco. Pensava ora a se stesso e a suo fratello come grandi Balene Bianche. Rifletteva sul fatto che lasciare l’animale sulla spiaggia sarebbe stato ingiusto. Il tempo e le mareggiate l’avrebbero spezzato a metà. Pensò che non fosse dignitoso e che quella balena l’avessero tradita un po’ tutti.

«E se la bruciassimo?» disse poi.
«Perché?»
«Per toglierla da qui.»
Il vento sferzava sul mare. Il fratello guardò Luciano che era serio e parve capire. Fece un cenno con la testa.
«Ho una tanica di benzina a casa.»
«Andiamo allora.»

Quando poi tornarono e tutto fu compiuto il fumo si era levato alto sul mare. Nessuno dei due disse niente finché la balena non fu oltre la loro vista. Per poco sentirono che era scomparsa.

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Gianluca Ferrittu (1994) è nato a Casale Monferrato, anche se negli ultimi anni ha vissuto tra Genova e Pavia. Tra poco parte per Lisbona, ma poi torna. Pubblicherà a breve un racconto su l’Inquieto e si definisce entusiasta della nebbia padana e del bianco e nero. Dice che per ora è tutto un work in progress, ma che si farà trovare pronto.