Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Novembre 2016


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l' assicurazione

Un racconto di Antonio Marzotto
Numero di battute: 2445

Quello che serve per capire se l’uomo con la giacca di camoscio e i capelli radi incollati alla fronte farà un altro passo indietro, l’ultimo, e si lascerà cadere dal ponte che attraversa il Fosso del Diavolo, è tutto qui. Non c’è bisogno di parlarne, né di farsi un cenno con il mento, o un’occhiata, niente. L'uomo si butterà. E le ultime due persone che guarderà saremo noi, Sonia. Ha scelto noi.

Io non lo so com’è svegliarsi di notte con in fondo alla gola la sensazione di aver sognato quello sguardo, e io e te non abbiamo bisogno di dircelo che non vogliamo portarcelo via, lo sappiamo e basta, come si sanno sempre le cose vere un attimo prima che lo diventino.

Saranno passate due o tre auto in venti minuti. Hanno rallentato, gli occhi inchiodati al parabrezza, le mani perfettamente in posizione 10 e 10 e speriamo che non mi cazzo fermano, pensano, quando vedono il lampeggiante blu. E io non lo so se qualcuno rallenterà per guardare la scena: l’uomo con la giacca di camoscio in piedi sul guardrail, e io e te, a due passi dalla volante, tu con la mano sulla fondina (come se fosse possibile minacciare di morte un suicida, stupida, stupida Sonia), io bloccata sulle gambe pesanti, non grassa, non magra, inadeguata. Qualcuno potrebbe fermarsi, e l’idea, Sonia, te lo confesso, non mi dispiace per niente. Perché non so te ma io vorrei tantissimo che un altro essere umano ci dicesse cosa dobbiamo fare, visto che tu non sei in grado, e io nemmeno.

Non aveva l’assicurazione, direi ai curiosi, si è spaventato, è sceso dalla macchina come se tutto fosse finito, come se la vita fosse fatta di gelato e fosse colata per sbaglio dentro a un tombino, e noi ci abbiamo provato a calmarlo, la multa non gliela facciamo più, non c’è bisogno, davvero.

«Aiuto. Aiutateci.
Non siate
solo curiosi.»

Per così poco, per così poco, per così poco. Aiuto. Aiutateci. Non siate solo curiosi. Parlateci voi che siete vivi e umani e pesanti e disperati. Ditegli che va tutto bene.

Ma nessuno si ferma, per paura di un controllo, della legge, degli abusi, della morte, del potere, del controllo. E noi siamo sole, Sonia, e saremo sole per sempre.

L’uomo sul guardrail ora tende le braccia verso di noi e annuisce come un bambino educato e il vento gli scompiglia i brutti capelli radi e con una mano se li sistema, senza fretta, come se si stesse preparando per uscire a cena.

E quando, alla fine, fa un passo indietro e scompare nel nulla, io, per dio, giurerei di avergli sentito dire: «Hop».

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Antonio Marzotto (1982) è nato e cresciuto a Livorno. Si è laureato in Cinema all’Università di Pisa e ha frequentato il Master in Tecniche della narrazione alla Scuola Holden di Torino. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da Quintadicopertina e dalle riviste Colla e Linus. Lavora a Roma per una società di comunicazione.

alessandra
minervini

Alessandra Minervini (1978) è nata a Bari, dove ora vive. Suoi racconti sono apparsi su alcune riviste, tra cui «Colla», «EFFE», «Cadillac». Organizza e tiene corsi di scrittura, il suo sito è www.alessandra.minervini.info

Ha pubblicato il romanzo Overlove (LiberAria 2016) e la guida turistica Bari. Una guida (Odos 2020).

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non ancora cancellata

Un racconto di Claudia Bruno
Numero di battute: 2500

La mattina presto il timbro è fermo al giorno prima, il rappresentante ci chiede se vogliamo il caffè. Al registro delle donne ci sto io. Dalla porta si vedono i prossimi. Abbiamo attaccato i cartelli ma sbagliano tutti. I maschi vengono da me, le donne dall’altra parte.

Signora di qua, le dico, le donne sono di qua. E mentre si avvicina infila una mano nella borsa nera, schiacciata, di quelle che potresti trovare in un film del dopoguerra. Allunga il braccio, ha la pelle ruvida, macchiata, una fascetta d’oro le sega il polso. Mi porge il documento. Ida Colotti, nata nel millenovecentoventitré, c’è scritto. La guardo, apro il registro, cerco la cì. Colotti, ripeto ad alta voce. Colasanti, Corte, Colotti niente. Ricontrollo. Co-lot-ti. Ah sì, eccolo. Colotti Piera, Gilda, niente Ida. No, dico. Guardo la ragazza sul documento, guardo Ida, guardo il registro. Signora, non c’è. Come non ce sto, pefforza ce sto, fa lei. Non è che ha sbagliato seggio? le chiedo, e lentamente le sfilo la tessera dalle dita. Trentaquattro, trentaquattro. Il numero è quello. Domando al collega che ha i maschi, hai visto mai se so sbagliati m’hanno nascosta là, ridacchia lei di sottofondo. Niente, fa lui, qui Colotti neanche c’è. Ma insomma non me fate vota’? alza la voce Ida. 

Tòctòc, bussa il finanziere sull’anta aperta. Tutto bene? chiede, che succede qui? Eh, che succede, dice Ida, ogni volta la stessa storia, non me fanno vota’. Nelle liste c’è un errore, spiego io, vado a chiamare il comune.

«Ma insomma
non me
fate vota’?»

Colotti, ripete l’impiegato all’altro capo del filo. E poi più lentamente, scandito in levare dalla percussione sulla tastiera, C-o-l-o-t-t-i Ida. Segue attimo di silenzio sottolineato da combustione di sigaretta. Deceduta, dice. È proprio sicura?

Quando torno al trentaquattro la vedo che mi viene incontro. Mo n’è che m’avranno scancellata pure stavolta, no? Mi sorride. E all’improvviso mi sento mancare, farfuglio un come? ’Na volta signori’, continua lei, era morta n’altra Ida, e il comune m’ha scancellato a me. M’hanno fatto mori’ prima. E io a spiega’ che ero ancora viva, che risate quella volta. Faccio per restituirle il documento. Ma ’nsomma, l’ha trovato il nome mio o no? mi chiede lei tutta agitata. L’ho trovato, dico. E che c’è scritto? domanda, e mi sfiora la mano. Ho un capogiro, per un istante chiudo gli occhi e riesco a malapena a respirare. La guardo, mi sta davanti, sa di rose e naftalina. C’è scritto Ida Colotti, rispondo, nata nel millenovecentoventitré e non ancora cancellata.

bruno claudia

Claudia Bruno (1984) vive tra Roma e Londra, lavora come redattrice e web editor. Nel 2016 è stato pubblicato il suo primo romanzo, Fuori non c’è nessuno (Effequ). Suoi racconti sono comparsi su Flanerí, Abbiamo le prove, Colla, Cadillac, Costola, Il Paradiso degli Orchi, Premio Treccani Web. Si aggira per Twitter e Instagram come @bruclina.

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jab

Un racconto di Michele Cocchi
Numero di battute: 2471

Agostino, un paio di pantaloncini, una camicia bianca e delle strette bretelle, frustò l’aria con il braccio e scagliò il sasso nell’acqua. Proprio là, disse. È laggiù che mio fratello l’ha vista.
Tuo fratello è un bugiardo, disse Fausto. I capelli neri tagliati corti e un paio di mocassini marroni.
Ti dico che l’ha vista. L’anno scorso. Mentre pescava. A neanche due metri di profondità. Poi all’improvviso è scomparsa.

Nico fissava l’acqua in silenzio. I pantaloni troppo lunghi e una maglietta frusta. Poco più alto degli altri ma già largo di spalle.
Tuo fratello racconta un sacco di stronzate, disse ancora Fausto.
Non racconta stronzate. La medaglia stava proprio là.
Ma se l’acqua è sempre melmosa...

Quella mattina era pulita. Agostino fece tre passetti rapidi sul parapetto bagnato di pioggia, abbassò la testa e simulò un jab. Era un gigante, disse. Il più forte di tutti. Non ha mai perso. Si avvicinò a Fausto e fece finta di colpirlo. Un giorno sarò io il più forte.
Una volta ha perso, disse Nico.

Te zingaro stai zitto.
Fausto rise. Allora chi si butta? domandò.
Per fare cosa?
Per cercare la medaglia.
Con quella medaglia sarei invincibile. Agostino sferzò l’aria coi pugni.

«Te zingaro
stai zitto.»

La medaglia non c’entra, disse Nico. Nemmeno l’ha buttata, l’ha persa. L’ho visto in un documentario. Alì lottava per dire che i bianchi e i neri sono uguali. Era questa la sua forza.
Quante cazzate. Agostino si avvicinò a testa bassa e fece il gesto di colpirlo.

Facciamo buttare lo zingaro, disse Fausto.
Giusto. Buttati tu.
Non sono uno zingaro.
Sì che lo sei.
Mia madre è polacca e mio padre ungherese. Non siamo zingari.

Agostino saltellò sulle punte, finse di dargli un pugno e poi lo spinse. Nico perse l’equilibrio rischiando di cadere all’indietro. Diede un colpo di reni e saltò addosso ad Agostino. I due ragazzini caddero e si rotolarono sul parapetto, mentre Fausto batteva i piedi e gridava: Buttalo nel fiume. Buttalo nel fiume. Quando Agostino fece per rialzarsi slittò sulla pietra umida e scivolò dal parapetto. Si sentì il tonfo del corpo che entrava nell’acqua.

Fausto si mise a ridere. Guardò in basso e gridò: Allora Agostino la vedi la medaglia?
Agostino annaspò e scomparve sotto il pelo dell’acqua.
Cazzo, non sa nuotare.

Vai a cercare aiuto. Nico si tolse la maglietta e l’ultima cosa che Fausto vide, prima di correre in strada e fermare l’auto di passaggio, fu la sua schiena muscolosa guizzare nell’aria, mentre l’acqua del fiume si apriva e si richiudeva sul suo corpo.

michele-cocchi-jab

Michele Cocchi (1979) è nato a Pistoia, dove vive e lavora come psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza. I suoi racconti sono apparsi su numerose riviste («Graphie», «Il primo amore», «Nazione Indiana), e su antologie (Padre, Elliot Edizioni, 2009). Nel 2010 ha pubblicato la raccolta Tutto sarebbe tornato a posto (Elliot Edizioni), finalista del libro dell’anno di Fahrenheit. Il suo primo romanzo è La cosa giusta (Effigi, 2016).

© Stefan Tärnell

la paura

Un racconto di Claudio Panzavolta
Numero di battute: 2489

L’ombra che rifletteva contro il muro era più massiccia di quella di un tempo. Una macchia nera contro il bianco dell’intonaco.
Tirò su col naso. Sputò.
«Devi smettere di fumare» disse lei. Anche la sua ombra si muoveva flessuosa, poco più indietro.
Sembravano belli, visti così; con un futuro ad attenderli alla fine della via, alla fine della pineta, alla fine di quella torrida estate.

E invece c’era quel costume, un regalo che lui non sapeva. «Come fai a non ricordarti? Tre anni fa, prima di partire» gli aveva detto lei, e la voce le tremava.
Non era stato lui a regalarglielo. I suoi slanci non andavano mai oltre una scatola di cioccolatini, una sottoveste, un portamonete – oggetti innocui, poco vistosi.
E adesso quel costume torniva le eccedenze di lei, sotto la camicia sformata. Lei che era sua moglie da più di vent’anni.

Il bagnino li accompagnò ai lettini. Li aprì. Scosse le tele, per pulirli.
Si spogliarono.
«Mi metti un po’ di crema?» disse lei.
Scivolando lungo la spina dorsale, i polpastrelli gli si impigliarono nel laccio del reggiseno.
La fantasia aveva una trama semplice, banale. Chiunque fosse stato a regalarle quel bikini, doveva essere privo d’immaginazione – una persona simile a lui, in fondo.

Si svegliò poco dopo mezzogiorno.
«Dormi?» le chiese.
La schiena di lei si sollevava e rilassava al ritmo del respiro.
Fu allora che udì lo strillo. Un grido lontano, fagocitato dal frastuono del mare.
I bagnanti corsero al bagnasciuga.
Un bagnino di salvataggio stava spingendo al largo un catamarano.

«Quel costume. Chi era stato a regalarglielo?»

Anche lei si svegliò.
Raggiunsero la battigia, insieme.
Il bagnino avanzava contro le onde, verso quella mano che ora, solo ora, scorgevano di tanto in tanto, tra i flutti.
Lei appoggiò la schiena contro il suo addome, come per cercare un contatto.
Lui spostò lo sguardo a terra. Fu un sollievo scoprire che le loro ombre erano di nuovo lì, sulla sabbia bagnata, dura.
Il laccio del bikini gli solleticava il petto, come a provocarlo.
Quel costume. Chi era stato a regalarglielo?

Non gli importava più saperlo, ora che il bagnino afferrava il braccio della ragazza, ora che anche i loro corpi maturi erano tornati a sfiorarsi, riavvicinati dal pericolo, dalla paura, proprio come un anno prima, nella casa di via Goito, a Bologna, dopo la strage alla stazione.
Quel due pezzi non doveva significare nulla: lo decretò in silenzio, accogliendo la mano della moglie nella sua.
La gente, intanto, risaliva verso gli ombrelloni, sollevata.
Ma loro rimasero lì, sul bagnasciuga.
Soli, vicini.

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Claudio Panzavolta è nato a Faenza nel 1982. Dopo essersi laureato in Storia d’Europa presso l’Università di Bologna, ha studiato Sceneggiatura cinematografica e televisiva a Roma. Ha pubblicato il romanzo L’ultima estate al Bagno Delfino (Isbn Edizioni 2014). Sulla rivista «Flanerí» è uscita la sua novella a puntate Cuore di Ruggine.  Vive a Venezia, dove lavora come redattore editoriale presso Marsilio Editori.

Non abbracciarmi di Carolina Crespi

non abbracciarmi

Un racconto di Carolina Crespi
Numero di battute: 2500

Stringo nella mano un sacchetto di plastica pieno di ciliegie scartate, e di noccioli.
L’aspetto seduto su due assi di legno appoggiate su una pietra. L’aspetto e non mi agito: spesso lei tarda agli appuntamenti.

«Spostati» urla dalla strada, «lì dove sei c’è il sole negli occhi!»
Ci sediamo per terra, in un posto senza sole, io appoggio il sacco dei noccioli, lei un mazzo di chiavi pesanti. Tira su un po’ col naso. Poi guarda i miei noccioli e me.
«Ti ho chiesto di venire perché entrambi i nostri padri trasportano cavalli.»
«Dove sono le ciliegie?» chiede lei.
«Entrambi, da Vicenza a Siena, cavalli diversi su camion diversi.»
«È vero che i tuoi ti riportano al tuo paese?»
«Fai solo domande.»
«Ti riportano dove ti hanno preso.»

Io taccio. A scuola mi hanno detto di non abbracciare anche se mi viene voglia di farlo. Mi hanno detto che gli altri non sono la mamma, che gli altri non sempre hanno piacere che li si abbracci. Mi hanno detto che sto crescendo, che alcuni mi trovano più schifoso, altri solo più alto. Sono alto come quasi tutti, di alcuni anche di più. Di lei, per esempio, che è bassa e ha tutti i nei che le macchiano le spalle.

«I cavalli era una cosa in comune per iniziare a parlare.»
«Non mi hanno mai portata a vedere da dove vengo.»
«Perché è a due passi da qui, non serve portarti. Puoi andarci anche adesso.»
Le guardo i sandali con il tacco.
«Oppure potresti venire a vedere da dove vengo io.»
«Non credo che mi divertirei. I cavalli non sono una cosa abbastanza in comune.»

«I cavalli non sono una cosa abbastanza
in comune.»

Michela si alza, guarda la corriera che si è fermata là dove la strada curva. Mi viene da abbracciarla, da toccarle il vestito di seta, glielo tocco, lei mi sente pesare attaccato ai polsini, non dice niente. Ho paura che uno si strappi incastrato così, tra le mie dita tenaglia instaccabile.

Lei all’improvviso si volta: ha gli occhi arrossati di rabbia.
«Non mi interessano le cose che dici!»
Si leva dalle tenaglie, inciampa nei noccioli e cade. Non piange, solo si è sporcata il vestito. Le guardo le spalle. Mi viene un’idea specialissima.
«E non abbracciarmi, a scuola dicono che abbracci tutti.»
L’idea mi sfugge. Mi sento rigido, punto per intero da un insetto.
«Non ti abbraccio, lo giuro.»

«Sediamoci sui legni. Il sole se n’è andato» mi dice.
Io raduno i noccioli e li rimetto nel sacco, prendo le sue chiavi pesanti, faccio un salto perché mi viene e spero che lei mi veda, ma lei è già seduta sui legni, di spalle, e guarda la strada.

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Carolina Crespi (1985) è nata a Busto Arsizio e ha studiato Filosofia a Milano. Ha pubblicato due raccolte di racconti dal titolo Quello che mi rimane (Giraldi, 2008) e Il futuro è pieno di fiori (NoReply, 2012). Un suo racconto è stato incluso in Quello che hai amato (Utet, 2015), antologia curata da Violetta Bellocchio. Attualmente insegna italiano e collabora con diverse riviste.