Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Febbraio 2019


giulio armeni racconto

tu tagli, io decido

Un racconto di Giulio Armeni
Numero di battute: 2487

«Be’? Non vuoi più il tiramisù?»
«No, è che ho paura che se ordiniamo un tiramisù e due cucchiaini ci scambiano per froci.»
«Allora è deciso. SCUSI…!»
«Shhh! Dài, su, lascia sta’…»
«Marie’, a parte che si vede che sei mio figlio. E poi, pure se fosse, tu devi imparare a far valere i tuoi diritti. Specie con gente come questa, che è mille volte peggio di te. E dammi ’sta mano! LA MANO! Ché ti sto spiegando una cosa importante…»

«Pa’, ho capito che sono tuo figlio, ma non c’ho otto anni.»
«Scusa, Marie’, lo sai che… l’ultima volta che ci siamo visti potevo ancora prendertela senza sembrà... scusa. Mo’ però ascolta. Sai perché t’ho portato qua?»
«Per offrirmi venti euro di cocktail?»
«Secondo te… quanta de ’sta gente, qua dentro, ha pippato? Almeno ’na volta.»

«Ma che ne so…»
«Spara.»
«Due su dieci.»
«Davvero così poco?»
«Pa’, perché fai tu la morale a loro? Sei tu che sei uscito di galera.»
«Perché io conosco ’sta gente! E non voglio che fai gli stessi errori miei.»

«Non eri un po’ troppo fluido
con lui?»

«Che c’ha c’sta gente? È gente normale, che si diverte.»
«Per cominciare, sono tutti razzisti.»
«Ah sì? Guarda il bangla col grembiule all’entrata.»
«Si dice bengalese, Mario.»
«Va bene, guardalo. Guarda come gli danno tutti il cinque, appena arrivano e quando se ne vanno. In un altro quartiere di Roma farebbero così?»
«Lo salutano per una questione di fluidità.»
«Di che?»
«Lo salutano perché a Roma Nord la cosa più importante è essere fluidi. Spigliati, co’ la battuta pronta. In realtà lo trattano peggio d’un barbone.»
«Mamma ha detto che tu ai barboni gli andavi a menare.»
«C’era n’idea dietro, Marie’. Ma poi il carcere te le cambia, le idee. C’hai tempo di leggere, d’informarti. Papà tuo s’è evoluto. SCUSI! Scusi, può portarci un tiramisù e due cucchiaini? Grazie.»

«Non eri un po’ troppo fluido con lui?»
«Gli ho dato del lei, Mario. Non si dà del tu a una persona solo per il colore della pelle.»
«Che palle, lo sapevo.»
«Che è?»
«Il bangla. In cucina. Ci ha indicato e s’è dato di gomito con l’altro.»
«Scusami un attimo.»
«Papà, no! Ferm…! Papà!»

***

«Ah, grazie! Ora, Marie’: lo sai come si divide equamente un tiramisù?»
«Perché devi fare ’ste scenate coi poracci?»
«Non è un poraccio, Mario. So’ andato lì a parlargli da uomo a uomo. Prendi il cucchiaino. Ora. Tu tagli le due porzioni, e io decido quale prendere. Così si fa, quando si divide qualcosa.»
«E mo’ che lo licenziano che hai risolto?»
«Ho risolto che c’è un razzista in meno a Roma Nord. L’omofobia è il vero razzismo. Ora taglia. Tu tagli, io decido. Ricorda.»

bio giulio armeni

Giulio Armeni (1994) è per un terzo romano, un terzo napoletano e un terzo pugliese. Ha vinto il premio Bellonci ed è arrivato due volte in semifinale al Campiello Giovani. Nel 2016 si è laureato in Filosofia. Attualmente collabora con le riviste YAWP e Flanerì, ed è founder delle pagine Facebook e Instagram Storia d’aa filosofia coatta.

racconto alessandra balla

la signora adele

Un racconto di Alessandra Balla
Numero di battute: 2398

«De puzza non ce se more ma de freddo sì.»

Me lo ripeteva sempre la bon’anima de mi marito, ma io questo so fà, io so pulì. De ’sta Roma bella, de ’sta Roma dei ricchi, ho visto tutti i cessi. Ho rassettato i letti con le lenzuola pulite, che poi sò più grigie e zozze de quelle de noi poveracci. Ormai da quarant’anni mi sveglio tutte le mattine alle 5, per dare il buongiorno al Colosseo e ai figli degli altri. Per il mio non ce stavo mai. Alle 8 quando Marco s’alzava per andare a scuola, io già avevo fatto due ore di lavoro. Bruno stava dentro al bar con le mani sporche de fumo e i caffè da servì al banco. ’Na vita de sacrifici, con pochi spicci in tasca e tante scale da lavà.

«Buongiorno, signora Adele» me dicevano. Ma io signora non ce so’ mai stata. Ero signora solo pe’ mi marito. Signora me chiamava il commercialista e quei quattro avvoltoi che c’hanno tolto tutto.

«Ma io signora non ce so’ mai stata.»

La domenica era ’na festa. Preparavo la lasagna e la portavo al bar. Magnava de core pure quel ragazzetto secco secco che aiutava nelle mansioni mi marito. Ci mettevamo seduti a un tavolino e ce sembrava de stà al ristorante. E poi Bruno mio faceva er mejo caffè de Roma, mi ci metteva sopra la panna e diceva che era dolce come me. La domenica era il giorno del Signore pure per noi poveracci. Dopo pranzo accompagnavo Marco al parco. Mica giocava, se ne stava seduto a leggè con le gambe incrociate. A Brunetto mio più de ’na volta me so’ permessa de confessà che ’sto figlio nostro non era normale come gli altri, ma lui mentre fumava me tranquillizzava: «Non te preoccupà, ’sto figlio der barista c’ha er cervello de’n astronauta».

E c’aveva ragione. Quando vedo Marco in giacca e cravatta venì qua a casa la domenica, me se fanno l’occhi grossi grossi e me commuovo. Marco fa il dottore e a quei ricchi che gli ho pulito i cessi mò lui gli salva il culo, ma lo salva pure ai poveracci come noi che in questa Roma bella non smettono de sperà.

Con le mani un po’ accartocciate e non più svelte come ’na volta, io a pulì so ancora brava. Sto a servizio dalla signora Matilde. Una signora vera per classe e sciccheria. Ma tutte le mattine, dopo che il sole s’alza con me alle 5, come ’sti quarant’anni passati, vado a dà il buongiorno al Colosseo, lo saluto e gli tiro un bacio pure pe’ Bruno mio. Io questo so fà. Io so pulì.

«Ade’, quando me moro, me raccomando, salutame er Colosseo e digli che gli ho voluto bene.»

balla alessandra bio

Alessandra Balla (1990) è nata a Tivoli e vive a Roma. Laureata in Editoria e Scrittura è giornalista pubblicista. Ha lavorato per la redazione cultura de La Repubblica e in diverse riviste di cinema e spettacolo. Questo è il suo primo racconto.

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il ratto di proserpina

Un racconto di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco
Numero di battute: 2416

Il corpo sopra di lei ha smesso di muoversi e ansimare. Adesso Rosaria può cominciare a respirare con regolarità, anche se sente ancora l’afrore acido del sudore del marito che le penetra nelle narici e sulla pelle. Come ogni volta, vorrebbe asportare quel liquido appiccicoso, che l’ha impregnata dentro e tra le cosce.

Si sente devastata e non può fare a meno di ricordarsi quando suo padre, a volte, tornando la sera tardi, ubriaco, nel silenzio della notte e delle mura casalinghe, si strusciava, a turno, con una delle cinque figlie. Senza fiatare, la vittima stava lì ferma a occhi chiusi, a trattenere le lacrime. Li riapriva quando, finalmente, non sentiva più i gemiti rochi, le mani ruvide perquisire il corpo; poi l’allontanarsi dell’odore di vino. Percepiva l’aria della campagna affluire fredda, attraverso gli infissi consunti delle vecchie finestre: carezzava e rinfrescava il corpo, come se lo ripulisse.

Adesso, dopo aver espletato il dovere di moglie vorrebbe uscire, respirare aria fresca, ma non può farlo, non abita più in campagna. Da circa vent’anni vive in città, vicino al porto, in una casa senza terrazzo, senza balcone. Potrebbe affacciarsi per un solo minuto, davanti al portone, fingendo di aspettare l’immediato rientro della figlia, ma andare fuori di notte per una donna sposata è sconveniente, anche se ha quarantadue anni e nella mentalità corrente ha quasi l’età di una nonna, per quanto giovane.

Così Rosaria si rannicchia sul fianco destro, dal suo lato di letto, sente i respiri lunghi e profondi del marito che è precipitato nel sonno e sa che tra poco inizierà a russare. Rimugina e aspetta che rientri la figlia.

«La vita è stata ingiusta con lei.»

In casa, il buio profondo è rischiarato dal rumore degli zampilli della fontana che provengono dalla strada. Rappresenta Nettuno in corteo con cavalli e tritoni, nell’atto di rapire Proserpina. Il rumore dell’acqua le fa venire in mente che le sarebbe piaciuto viaggiare, invece nella sua vita ha fatto solo brevi spostamenti: città-paese, un percorso di non oltre dieci chilometri.

In questa notte di ottobre del 1965, Rosaria sente che la vita è stata ingiusta con lei: non le ha mai donato niente.

Ancora non può sapere della burla che la vita le ha preparato: tra nove mesi, appesantita, anche dalla vergogna di partorire a quell’età, avrà qualcuno su cui scaricare insoddisfazione e risentimenti, da poter tenere accanto come un marito e un servitore fedele.

coco giuseppe bio

Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco (1966) è nato a Catania e vive a Firenze. Ha pubblicato alcuni saggi e testi divulgativi sullo stile di vita etico, tra i quali Sowa Rigpa (Infinito Edizioni, 2010), insieme a Franco Battiato, e Il pasto gentile (Infinito Edizioni, 2012). Ha frequentato alcuni corsi online della Scuola Holden.

racconto giorgia tolfo

meduse

Un racconto di Giorgia Tolfo
Numero di battute: 2289

Si erano date appuntamento per un caffè senza sapere che bar avrebbero scelto o che saluto avrebbero usato.

Non sapevano, allora, che a posteriori sarebbero tornate a ripensare a quell’incontro con insistenza, cercando di mettere a fuoco i dettagli che nel loro accadere erano sembrati irrilevanti, come la maglia o l’espressione indossata, o il colore del cielo quando avevano appoggiato la mano sulla porta del locale. Però ricordavano il freddo – quello non si poteva dimenticare perché era stato eccezionale anche per i giornali – che era svaporato dai cappotti nell’istante in cui erano entrate nel bar ed erano state avvolte da un’umidità che profumava di cornetti appena sfornati ed era appiccicosa come certi umori.

Avevano scelto il tavolo nell’angolo, in disparte ma non troppo fuori vista, e si erano sorprese ad allungare la mano sullo schienale della stessa sedia. 
Avrebbero poi raccontato che quello era stato il momento in cui avevano capito, l’una all’insaputa dell’altra, la sfida che si sarebbero lanciate, una sfida che in quel momento non esisteva che nella forma di uno dei futuri possibili, una delle tante configurazioni che le conseguenze del loro incontro avrebbero potuto assumere.

Una ragazza con una camicia a quadri aveva portato loro il caffè che avevano ordinato con distrazione, senza pensare, prese com’erano dalla conversazione che era sbocciata vivace dopo aver preso posto una di fronte all’altra.

«Però ricordavano
il freddo.»

Erano bastate poche domande di circostanza per capire che avevano camminato spesso sotto gli stessi portici, che si erano riparate dalla pioggia sotto gli stessi archi, che se ora abitavano in due mondi fisici diversi, i loro pensieri ne occupavano uno in comune. Amavano gli stessi libri, ma una preferiva il ritmo nervoso della punteggiatura, l’altra la lunghezza dei periodi, una il respiro del racconto, l’altra i dettagli di certe descrizioni.

I loro sogni erano proibiti, o come avrebbero ammesso a posteriori, proibiti in quel momento, in quel contesto, gli uni agli occhi dell’altra.
Ma attratte da questi, sedevano immobili, fissandosi, cercando di vedersi oltre gli sguardi che si lanciavano, desiderando guardare ed essere guardate, sapendo che prima o poi, come meduse di una personale mitologia tragica, avrebbero finito per decapitarsi a vicenda.

tolfo-giorgia

Giorgia Tolfo è nata a Marostica nel 1984 e vive a Londra. Ha conseguito un dottorato in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l'Università di Bologna, scrive su varie testate online, tra cui Finzioni e minima&moralia, ed è programmatice del Festival di Letteratura Italiana di Londra (FILL).