Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Aprile 2017


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solitudine

Un racconto di Elena Chiara Mitrani
Numero di battute: 2479

La chiave di volta era stata la morte del cane.
Viveva da sola ormai da un paio d’anni; sua madre era anziana, troppo anziana. Il cane, però, era rimasto, ultimo vero legame sentimentale e scusa per relazionarsi ancora con il mondo esterno. Era un maltese dal pelo ingiallito, gli occhi velati dalla cataratta, il respiro che si faceva ormai affannoso durante il consueto giro intorno all’isolato, intrapreso insieme due volte al giorno. Si era sdraiato tra la poltrona e la piccola libreria e si era lasciato andare. Nascosto, quasi vergognandosi e sentendosi colpevole di lasciarla sola a sua volta.

Lei aveva cominciato ad appoggiarsi a loro, sempre di più. Erano virtuali, ma erano amici. Condividevano eventi, consigli, compravano e vendevano oggetti di seconda mano. Parlava con loro per ingannare quel tempo che passava sempre più lentamente. Raccomandava librerie, partecipava alle animate discussioni sulle decisioni dell’amministrazione pubblica, e ogni volta che qualcuno condivideva le foto di cuccioli di cane da adottare si proponeva, ma non veniva mai ricontattata.

«La casa appariva in ordine, anche se sapeva di zuppa, cane, aria stantia.»

I pompieri erano arrivati poco prima di mezzanotte, nessuno si era presentato alla porta quando avevano suonato il campanello, né quando avevano bussato in maniera energica. Davanti ai vicini in vestaglia avevano fatto saltare la serratura ed erano entrati. Procedendo tra i vecchi mobili senza toccare nulla, avevano notato che la casa appariva in ordine, anche se sapeva di zuppa, cane, aria stantia. L’avevano trovata in camera da letto. Lei, sotto le coperte, non si muoveva. Era stato il più anziano tra loro ad avvicinarsi e a darle un colpetto sulla spalla. Lei si era svegliata e aveva lanciato un urlo, voltantosi a guardarli con aria spaventata.
«Signora! Ma allora è viva!»

Aveva dovuto rimettersi gli apparecchi acustici e gli occhiali, appoggiati sul comodino dall’altra parte del letto, per farsi spiegare cosa fosse successo. Il pompiere più giovane le aveva mostrato qualcosa sullo schermo di un tablet. «L’ha scritto lei questo, signora».

Eppure non se lo ricordava, per lei era stata solo una serata come le altre. Invece, prima di andare a dormire, ai suoi amici del gruppo di Facebook aveva annunciato l’intenzione di farla finita. Loro erano facilmente risaliti alla sua identità e al suo indirizzo, e avevano avvisato i pompieri. Lei sconsolata, guardando con occhi vacui quel ragazzo con il distintivo e lo smarpthone in mano, ripeteva: «Non ricordo di averlo scritto, davvero».

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Elena Chiara Mitrani (1985) è nata a Milano, vive a Parigi. Scrive di libri e di calcio, principalmente ma non solo su Finzioni e Rivista Undici. Quando ha tempo scrive sul blog personale lastanzabianca.net. In passato ha collaborato con diversi siti e pubblicato racconti su FaM - Frenulo a Mano, Terranullius, Setteperuno. Ha scritto un romanzo, Aeroporti (Nativi Digitali Edizioni, 2014).

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la gente non esiste

Un racconto di Paolo Zardi
Numero di battute: 2479

«Posso?» La signora seduta in diagonale, un donnone con lo sguardo misericordioso e una cinquantina di chili di troppo, si era tolta le scarpe e gli aveva chiesto se poteva appoggiare i piedi sul sedile accanto. «Sa, è per la pressione.»

Aveva annuito silenziosamente; poi si era girato verso il finestrino e aveva ripreso a guardare il panorama – un alternarsi di colline e gallerie. Di solito viaggiava per lavoro, negli orari in cui le famiglie sono ancora in cucina a prepararsi la colazione o stanno sedute attorno al tavolo per la cena; ma era sabato, ed erano le quattro del pomeriggio, ed era appena iniziato un ponte lungo cinque giorni – una transumanza su scala nazionale. Dov’era quella gente durante la settimana?

«Dov’era
quella gente durante la settimana?»

Un posto più in là, un bambino con i riccioli e una giraffa di peluche in braccio ruttava ogni trenta secondi. Il fratello, più piccolo e più stronzo, stava disintegrando delle Pringles con una sistematicità da impresa di demolizioni; si interrompeva solo per grattarsi il culo: i genitori avevano abdicato al loro ruolo storico, scorrendo vite su vite nella timeline di Twitter. Nella fila dopo, una donna con ambizioni da milf leggeva un libro in tedesco; due asiatici con le teste cubiche parlavano con scoppi improvvisi di voce. Davanti a lui, l’uomo seduto accanto alla cicciona senza scarpe ogni tanto rispondeva al telefono, ma diceva solo sì o no e metteva giù. L’addetto delle pulizie, umiliato dalla tutina verde di ordinanza, andava avanti e indietro per i vagoni come se stesse cercando qualcosa di più importante di una cartina fuori posto. Se si vedeva un castello diroccato, o una città arrampicata su una collina, una madre avvertiva i figli, e i figli si meravigliavano per uno o due secondi, e tutto tornava come prima.

Sul tavolino c’era anche un giornale: il giorno prima c’era stata una carneficina in India, centoventi morti. Per quel tipo di cose ci si poteva dispiacere in generale; scendendo nel dettaglio, però, era probabile che quelle centoventi persone assomigliassero ai passeggeri del treno: gli stessi bambini rumorosi, le stesse donne grasse, gli stessi pianti senza motivo. Di sicuro, c’era anche un altro come lui, con le pareti del cuore foderate di merda. Poi il bambino con la giraffa scoreggiò, la milf sorrise, la cicciona sbuffò. Con un po’ di tempo in più, forse sarebbe arrivato ad affezionarsi all’umanità sbilenca della gente ma in un viaggio così corto, in una vita sola, c’era spazio unicamente per l’odio.

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Paolo Zardi  (1970) ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (Neo, 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo, 2013), i romanzi La felicità esiste (Alet, 2012), XXI secolo (Neo, 2015), finalista al Premio Strega 2015 e tradotto in spagnolo, e La Passione secondo Matteo (Neo, 2017), e i romanzi brevi Il signor Bovary (Intermezzi, 2014), Il principe piccolo (Feltrinelli Zoom, 2015), La nuova bellezza (Feltrinelli Zoom, 2016). Cura il blog grafemi.wordpress.com

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Un racconto di Giuseppe Imbrogno
Numero di battute: 2295

Non hai tempo da perdere, figurarsi la mattina presto. La mattina c’è la metro che scappa, le scale intasate, il flusso da seguire. Il flusso trasporta, trascina, chiede solo di non resistere. Ieri mattina, mentre scorrevi nel flusso, giù dalle scale, già nel mezzanino, in quel momento l’hai visto. Sulla destra, prima dei tornelli, la scatola di cartone bagnata sfondata aperta a separarlo da terra. Ci hai dedicato giusto la coda dell’occhio, giusto un veloce pensiero.

Al ritorno (la sera il flusso si concede una pausa), hai avuto tempo per osservare. Era ancora lì, nella stessa posizione in cui lo avevi lasciato la mattina. Ti sei avvicinato. Il cartone. Il carrello della spesa. La latta di tonno per le monete. Vecchie bucate sporche coperte di lana creavano l’ammasso informe. Sotto quelle coperte, non era dato sapere.

Dall’ufficio avevi portato con te un ombrello, affusolato, la punta di metallo, l’hai usato per pungolare le coperte. Hai smosso quello che c’era sotto. Nessuna risposta. Nessun movimento. Un secondo tentativo. Ancora niente. Cosa si nascondeva là sotto? Sicuramente qualcosa di spaventoso, ripugnante. Immobile? Ti stava prendendo in giro.

«Il flusso trasporta, trascina, chiede solo
di non resistere.»

Hai usato la punta dell’ombrello per premere più forte sotto quelle coperte. Hai cercato i punti più molli, ti sei preso il tuo tempo. Ancora niente.

Il primo colpo è arrivato nemmeno tu sai come. Forte, secco, l’ombrello usato come una clava. Ancora nessun movimento. Ti stava sfidando, era evidente. Un secondo. Un terzo colpo. Ancora niente. Eri a un passo dal metterti a piangere. Non avevi considerato il flusso.

Altri uomini e donne si erano avvicinati. Chi con un ombrello. Una borsa Michael Kors. Una racchetta da tennis. Il bastone della propria vecchiaia. Chi non disponeva di un attrezzo pensò giustamente di usare gambe e pugni. Iniziarono a colpire, eccome se colpivano. Non una parte dell’immondo gonfiore era risparmiata. Sotto la selva di colpi sembrò che qualcosa finalmente iniziasse a cedere. Il rumore che fanno gli ossi del pollo quando spezzati. La sensazione di poltiglia e gelatina e fango quando strappi le interiora dei pesci. I colpi continuavano a cadere, un flusso continuo. Dopo l’ennesimo colpo ben assestato con il tuo fedele ombrello, hai pensato che no, adesso sicuro non si sarebbe più mosso.

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Giuseppe Imbrogno (1976) è nato e vive a Milano. Dopo una laurea in filosofia, oggi si divide tra la passione per la scrittura e il lavoro di progettista sociale, il tennis giocato e guardato, i classici russi, Carrère, Stephen King e le serie TV di David Simon. Il suo romanzo Il perturbante è stato finalista dell’edizione 2016 del Premio Italo Calvino, dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria.

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Un racconto di Giorgia Bernardini
Numero di battute: 2453

A Gaia piace camminare attraverso Schöneberg in un sabato soleggiato all’inizio di marzo. C’è un angolo di Winterfeldtplatz che le ricorda Pisa e così si siede su una panchina e accende una sigaretta sfusa che si è portata in tasca per non fumare troppo. Già alle nove i bar ai bordi della piazza sono gremiti di uomini e donne che bevono cappuccino e mangiano insalata di avocado al sole, guardando la guglia della chiesa di S. Mattia con gli occhi strizzati e le labbra contratte in un sorriso sghembo.

Il telefono le vibra in mano: è un selfie di Mona e Julia che le ritrae sulla terrazza della casa che hanno preso in affitto a Bari. Mona è in canotta e la sua pelle sotto il sole le mostra l’esistenza di nuove sfumature di bianco. Vorrebbe essere lì con loro ma allo stesso tempo vorrebbe anche essere esattamente sulla panchina su cui siede. Fare pace con i luoghi è qualcosa che ha imparato solo dopo una lunga guerra con se stessa.

«Fare pace con i luoghi è qualcosa
che ha imparato
solo dopo
una lunga guerra
con se stessa.»

Scorre la lista delle chat di WhatsApp e manda un messaggio vocale a Martina: «Ho ripreso in mano un raccontino sui nostri pranzi a mensa ai tempi dell’università. Ricordi? Ci penso spesso» le dice, anche se ormai non più così spesso come faceva quattro, cinque anni prima.
I ricordi sono pieghe della mente in cui si nasconde come accade certe domeniche mattina, quando fa freddo e dopo aver gettato uno sguardo fuori dalla finestra si arrotola ancora più fittamente dentro il piumone.

Una signora corpulenta vende mazzolini di fiori che Gaia immagina essere stati recisi dal giardino della sua casa a Lichtenberg; piccoli steli fragili tenuti insieme con un elastico da ufficio.

In quel preciso istante, facendo un monologo a Martina, è come se nella sua vita non avesse mai sbagliato nulla. Pensa che Manuale per donne delle pulizie faccia sembrare la scrittura una cosa semplice e da un’altra foto che le arriva sul cellulare impara che la campagna a un’ora di treno da Cambridge in direzione nord-ovest è simile a un quadro di Rothko, ma con i toni del marrone e del verde.

Ripone il telefono in tasca anche se continua a vibrare e non sa se tirarlo fuori di nuovo e condividere il momento più bello della giornata con tutti loro, inumati dentro uno schermo, o se continuare a guardarsi intorno e raccogliere tanti piccoli istanti che resteranno solo suoi. Loro sono tutti da un’altra parte, e Gaia sente lo sforzo di tenerli al suo fianco, raccolti fra le dita che tremolano quando arriva un altro messaggio.

Giorgia-Bernardini

Giorgia Bernardini (1985) abita a Berlino. I suoi racconti sono stati pubblicati su Rivista Studio e Abbiamo le Prove. Ha partecipato all’ultima edizione di 8x8, un concorso letterario dove si sente la voce.