Pastrengo Agenzia Letteraria

Author Archives: Michele Turazzi


racconto Martina Ciullo

2085

Un racconto di Martina Ciullo
Numero di battute: 2314

Da quando avevamo scoperto che ero incinta ne avevamo visti a decine.

I colloqui li facevamo in ufficio. «La prudenza non è mai troppa» diceva mio marito, e io ero d’accordo, soprattutto quando si parlava di robot-babysitter. Si sentivano strane storie. Un luccichio sospetto in fondo agli occhi, un cenno furtivo con la mano. Certi modelli sembravano leccarsi le labbra, anche se non avevano né lingua né labbra.

«Ho sentito dire che un robot ha cercato di rapirne uno» dicevo a mio marito, la sera, a letto. Lui mi rassicurava, avevamo iniziato a cercare con grande anticipo e avremmo scelto un modello di prima fascia.

«Si sentivano strane storie.»

E poi, dopo infiniti colloqui, avevamo conosciuto lui, un robot maschio. Non che li avessimo esclusi a priori, ma sapevamo che le femmine avevano più skills. Eppure appena avevo visto Ting Ting avevo capito che era quello giusto.
Lo sguardo dolce, le mani sulle ginocchia. Sembrava un uomo appena arrivato nel nostro paese da molto lontano più che un robot governativo progettato per aiutare le famiglie che potevano permetterselo.

Ting Ting mi aveva chiesto: «Come si chiamerà?», e siccome nessun altro robot aveva mai fatto una domanda simile, io, d’istinto, gli avevo risposto.

Poi mio marito mi aveva sgridata: «Perché gli hai detto il nome vero?».
Mi fidavo già di Ting Ting, ma non potevo certo dirglielo.

Dopo altri due colloqui nell’ufficio, l’avevamo fatto venire a casa nostra. Lui sfiorava tutto con lo sguardo, stando bene attento a non urtare nulla. Io gli sorridevo, sempre più rotonda.

«Vieni, Ting Ting, ti faccio vedere la camera della bambina.» Lui era rimasto per lunghi minuti a fissare la culla.

«In quale lingua vorresti parlarle?» gli aveva chiesto mio marito. La prima funzione dei robot-babysitter era far crescere i bambini bilingui.
Ting Ting gli aveva risposto con una rapidità sorprendente: «Potrei parlarle in cinese?».

Nessuno di noi aveva niente in contrario, anche se avremmo preferito una lingua più internazionale. Dopo la guerra nucleare la Cina era una minoranza, ormai meno di un milione di persone parlavano mandarino nel mondo.

«Sei cinese, Ting Ting?», gli avevo chiesto, senza nessun motivo, e infatti non mi aspettavo che lui mi rispondesse.

Avevo pensato che eravamo fortunati, io, mio marito e la bambina.

Poi lui aveva detto: «Vorrei saperlo anch’io».

ciullo martina bio

Martina Ciullo è una violinista professionista e scrive da sempre. Ha studiato Giornalismo a Trieste e Sceneggiatura alla Scuola Holden. Vive a Roma.

dioguardi andrea

per una fetta di torta

Un racconto di Andrea Dioguardi
Numero di battute: 2464

Arrivano all’ultimo piano con l’affanno perché, anche se zoppica, Lisa non prenderebbe mai l’ascensore. Nino si è offerto di portare la torta, ma Lisa non l’ha degnato di una risposta. Mentre salivano, Nino è rimasto indietro, pronto a sorreggere Lisa se la mano le fosse scivolata sulla balaustra. Ora aspetta schiacciato contro la parete, come per non essere d’intralcio.

Lisa esita davanti al battente a forma di leone. Quando si decide a bussare, il pianoforte che li ha accompagnati dall’ultima rampa si ferma. Nino tira su col naso e Lisa lo fulmina con lo sguardo.

«Sì?» dice una voce.
«Ho portato una torta.»
«Chi parla?»
Lisa fa un passo indietro. «Signora Ada, sono io.» Si alza sulle punte e solleva la scatola, riciclata da una pasticceria. «Ho portato una torta.»
Il leone soppesa Lisa per qualche istante.
«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»

«Speravo potesse… magari… rimediare al danno.»

«Che torta?»
Lisa si tocca d’istinto la gamba storpia. «Una torta di mele, la preferita della signora Vittoria…»
«Quale ricetta?» Un’altra voce.
«La solita, signora Vittoria, la sua preferita…»
«Gli ingredienti, per cortesia.»
«Le mele, le renette buone, le ho prese al mercato…»
«Ci descriva come l’ha fatta.»

Lisa lancia un’occhiata a Nino. Lui però non conosce la ricetta: Lisa l’ha sbattuto fuori dalla cucina, la torta non l’ha neanche vista. Il silenzio dietro la porta la incalza. Lisa parla senza ingarbugliarsi troppo.

«... Allora ho messo 220 grammi di farina, la ricetta diceva 250 ma non ne avevo più…»
«220?» ripete la signora Ada.
«No» dice la signora Vittoria. «Così non va».
«Se solo la assaggiaste…»
«Signora Lisa» interviene un’altra voce. «Perché venire fin qui se non ha seguito la ricetta per filo e per segno?»
«Signora Celeste, la prego…»

Uno scatto annuncia la chiusura dello spioncino. Lisa insiste che potrebbero mangiarla in salotto, quando Celeste ha finito di esercitarsi al pianoforte, Vittoria di fare l’uncinetto e Ada di leggere le sue poesie, proprio come un tempo. Nessuna risposta.

Nino se le immagina guardare a turno dallo spioncino, in piedi su uno sgabello, per poi sparire con passo felpato nei meandri dell’appartamento.

«Posso avere una fetta?» chiede dopo un po’.
Lisa scrolla le spalle.
La torta, abbandonata a terra, si è attaccata al coperchio. Nino stacca un pezzo con le mani.
«È buona» dice leccandosi le dita. «Se solo l’avessero provata…»

Lisa contempla prima il pasticcio che era la sua torta, poi Nino. «Mi fai schifo, lo sai?» E inizia a scendere zoppicando senza di lui.

bio dioguardi

Andrea Dioguardi è un abruzzese perduto a Colonia. Di mestiere traduce parole altrui, ma ogni tanto ne scrive anche di sue. Ha pubblicato un racconto su Fantasy Magazine.

Elisa Secchi Villa racconto

bianco, blu

Un racconto di Elisa Secchi Villa
Numero di battute: 1975

Un anno, mia cognata mi regalò una macchina per fare il pane. Diceva che lei non la usava più, ma che era di una buona marca. Era uno scatolotto bianco latte, con un oblò per inserire gli ingredienti e guardarli diventare una grossa palla roteante, che poi tremava e faceva bipbip quando tutto era finito.

Feci con le bambine vari tentativi. All’inizio erano incuriosite da quei nuovi esperimenti, si divertivano e iniziarono a credere nel nostro futuro autarchico, finché ci rendemmo conto che non avremmo mai ottenuto una crosta di spessore inferiore ai quattro centimetri.

Il sapore di quel pane tutto crosta, che sembrava essersi cotto nella lavastoviglie, è tutt’uno con i ricordi di quel periodo. La sera, col sottofondo ronzante dell’impastatrice Moby Dick, facevo qualche telefonata. Di amici ne restavano pochi: coetanei, vivevano un’età più giovane della mia. Sentivo, a volte, un’anziana conoscente della mamma.

«Coetanei, vivevano un’età più giovane della mia.»

Un pomeriggio andammo a trovarla. La villa di campagna rimbombava dei nostri passi, rivelando piccoli affreschi e cimeli. Chiacchierammo di un telaio industriale per un tempo abbastanza lungo da esasperare le mie figlie, zittite con caramelle di marmo. La signora non dava quasi attenzione alle bambine: aveva un grande desiderio di parlare con me, di raccontare ma anche di ascoltare qualcosa di nuovo. Alla fine, vinta dalla sua insistenza, caricai in macchina due vecchi comodini ad angolo, che, assicurava, sarebbero stati perfetti in casa nostra.

Le parole e le immagini scambiate con lei diedero senso ad alcune giornate. Poi smisi di sentirla, seppi che era morta solo mesi dopo che aveva preso posto nella cappella in fondo al cortile, per sua richiesta di totale silenzio.

A casa, la sera delle angoliere, trovai in uno dei mobili scatole cilindriche di cartone indurito, che contenevano colore in polvere. Quel blu profondissimo mi emozionò. Lo diluii a sentimento e tracciai meravigliata dei decori sul legno, provando a raccontare una storia.

Elisa Secchi Villa

Elisa Secchi Villa è nata a Brescia nel 1994. Laureata in Giurisprudenza, lavora come consulente in ambito di compliance aziendale. Ha scritto di contenzione in ambito psichiatrico e sanitario. Tutti i romanzi che vorrebbe fare la perseguitano.

Andrea Scagliarini racconto

l’ assicuratore

Un racconto di Andrea Scagliarini
Numero di battute: 2500

Nel giugno del 1913, l’assicuratore boemo Josef K. giunse a Torino forse affascinato dalla fama sinistra della città. La sera del 16, camminando sotto le arcate di piazza Vittorio Emanuele I, già place Imperial, incrociò lo sguardo luciferino di un uomo anziano che incedeva appoggiandosi a un bastone da passeggio con l’impugnatura d’avorio. Il diavolo non amava frequentare le vie affollate, disprezzava i carrettieri, le erbaiole, i turisti, i mendicanti, gli skater e i venditori abusivi. Odiava gli esseri umani e preferiva agire di notte come un artista maledetto.

Ma cosa avrebbe notato quell’anziano signore nell’osservare un uomo magro come un digiunatore, la schiena curva, abbigliato da forestiero che si guardava intorno, smarrito come un fantasma? Cosa avrebbe ricavato Josef K. dalla conoscenza diretta di quell’affabulatore solitario, affaticato dagli anni che odorava di acqua di colonia per nascondere l’afrore dolciastro del suo corpo? Entrambi preferirono ignorarsi e proseguire sotto i portici, senza meta.

«Il diavolo non amava frequentare le vie affollate.»

Le giornate diventavano sempre più calde. Le fontane si seccavano o scaricavano acqua putrida e rugginosa. Ma Torino non era la città dei miracoli benché un tempo abitata da uomini santi come don Giuseppe Cafasso, presbitero della forca e grande benefattore.

In una lettera del 21 giugno a Felice Bauer, l’assicuratore racconta di trovare la città piacevole soprattutto di mattina presto. Piena di scorci, belle vedute e abbaiare di cani. I colombi, le cornacchie e altri volatili dal becco nero sono dappertutto, sotto i portici o sui balconi. Ne descrive il rumore. Considera gentili e accoglienti le persone che incontra nei caffè. Le cameriere dell’Albergo Occidentale sembrano bambine. Quando parlano tra loro, ridono e squittiscono come donnole in calore e comunicano in una lingua misteriosa che assomiglia al francese. Nessuno parla il tedesco commerciale, l’yiddish o il boemo. È difficile mangiare cibi vegetariani e il diavolo lo sa bene. È vegetariano anche lui.

Il 21 giugno, Josef K. lasciò Torino senza aggiungere nulla sui motivi della sua visita. Si diresse a Montichiari, vicino a Brescia, per assistere a una esibizione internazionale di aeroplani.  Lo aspettava alla stazione il suo amico e confidente Max Brod cui non raccontò alcun particolare della breve esperienza torinese. Nemmeno della lettera a Felice Bauer abbiamo più traccia. Forse è conservata a Tel Aviv oppure l’assicuratore non l’ha mai spedita.

andrea scagliarini

Andrea Scagliarini è un musicista indipendente e un insegnante a tempo pieno in un quartiere difficile di una grande città. I suoi testi sono apparsi in antologia e sulle riviste letterarie Narrandom, Racconticon, Pastrengo, Enne 2, Border Liber, Nabu, Kairos Rivista e Fuori Asse.

racconto Edoardo Carsetti

la scarpa

Un racconto di Edoardo Carsetti
Numero di battute: 1935

Per questa notte una scarpa te la presto volentieri, disse la ragazza, poi sollevò appena il piede destro e mi fece cenno di sfilarle la scarpa col tacco. Scoprii, senza stupirmi più di tanto, che il suo piede aveva un buon profumo. Un profumo che avrebbe potuto ricordarmi, anche se non lo fece, la fragranza remota del nardo. Ma adesso non esageriamo.

Pensai che più tardi, quando la ragazza se ne fosse andata, avrei potuto sentire di nuovo quell’odore attraverso la scarpa, eppure non percepii nulla. Se non fosse stato per il lieve calore che emanava, si sarebbe creduto che nessun piede avesse mai calzato quella scarpa. Ad eccezione forse di una leggera impronta che aderiva appena alla soletta.

Non chiesi istruzioni su come poter usare quel dono e la ragazza non me le diede. Soltanto, si raccomandò di riportare la scarpa pulita come me la stava lasciando. Mi sembrò una condizione ragionevole e accettai. Era mezzanotte quando rimasi solo.

«Ma adesso
non esageriamo.»

Cercai di non sporcare in alcun modo la scarpa e sono quasi sicuro di esserci riuscito. Col tempo però l’impronta del piede al suo interno è quasi scomparsa del tutto. A volte, guardando quel che ne è rimasto, mi vengono in mente le unghie del piede della ragazza. Quelle unghie smaltate di rosso che avrei potuto paragonare all’interno lucente di cinque conchiglie o ai petali di una rosa, anche se né le conchiglie né la rosa mi vennero in mente perché in fondo le unghie del piede della ragazza erano semplicemente le unghie del piede della ragazza.

Non ne ho più viste di così perfette dopo quella volta. Non so neanche quanto tempo sia passato da allora. Sarebbe stato sensato chiederle almeno dove abitava. Ancora oggi vado di casa in casa a cercare un piede che combaci perfettamente con l’impronta lasciata all’interno della scarpa. Fra poco sarà completamente sbiadita e non servirà più a nulla.

Per fortuna essendo fatta di cristallo per ora la scarpa non ha fatto una piega.

Edoarda Carsetti bio

Edoardo Carsetti è nato a Fabriano (AN) nel 1996, ma da alcuni anni vive a Roma, dove si guadagna da vivere vendendo frutta e verdura. Nel tempo libero ama andare in palestra (luogo ideale per sollevare opinioni) e scrivere racconti o plagiare quelli altrui, spesso senza una vera giustificazione estetica.

costanza
ghezzi

Costanza Ghezzi (1963) vive a Orbetello (GR). Fondatrice di Thàlia Servizi Editoriali, è vicepresidente della commissione per le Pari Opportunità del comune di Orbetello e fa parte della commissione Pari Opportunità provinciale.

Ha pubblicato racconti su riviste e antologie e la novella Il segno di Nora (Bibibook, 2021).

carla bellavia racconto

la mano rossa

Un racconto di Carla Bellavia
Numero di battute: 2468

Mia madre si è messa in testa di doverci alleggerire il compito per quando lei e mio padre non ci saranno più, e ha deciso di iniziare a svuotare casa partendo dalla libreria di papà.

Sospetto di aver contribuito a questa decisione l’ultima volta che sono stata a casa loro per uno dei nostri pranzi familiari estesi, che le danno modo di fare quello che lei con una nota di soddisfazione chiama “la cacciata”, ovvero tirare fuori dagli armadi il servizio da diciotto di porcellana ottocento filigranato in oro e la parure di calici di cristallo. Quattro bicchieri per coperto: acqua, vino bianco, vino rosso e rosolio di fine pasto. Ma chi lo beve più il rosolio?

Mentre la aiutavo ad apparecchiare ho osservato ad alta voce che tutta questa roba, bellissima per carità, non entrerà mai negli striminziti armadi di casa mia. Pochi e invisibili. Li ho voluti così e mia madre non se ne fa una ragione.

«Ma chi lo beve più il rosolio?»

Era più attenta di quanto pensassi perché qualche giorno dopo mio padre mi ha chiesto di accompagnarlo dal filatelico per ottenere una stima della sua collezione di francobolli. Queste cose non interessano più nessuno, mi ha detto. Sono andata con lui e mentre era lì che parlava con il tizio di Bolaffi non ho potuto fare a meno di pensare che sì, dei francobolli non frega più niente a nessuno, però io lo cos’è un Gronchi rosa perché mio padre ce l’aveva e quando ero piccola ne andavo pure orgogliosa. Anche se il Gronchi fu venduto anni fa per saldare il mutuo della casa al mare, il filatelico che tirava sul prezzo della collezione mi è stato subito sulle palle.

Ieri sera sono tornata da loro e mi sono affacciata nello studio. Un paio di grossi scatoloni aperti tradivano che l’opera di smontamento andava avanti. Ho sbirciato il contenuto. La mano rossa, l’albo numero uno della saga di Tex Willer, stava lì, in cima alle file ordinate di fumetti imbustati singolarmente in foderine di plastica lucide e croccanti. Pronti a essere liquidati.

Ho preso il fumetto in mano, la bustina trasparente luccicava sotto la luce calda del lampadario. Tex Willer in camicia rossa e pantaloni verdi, immortalato nell’attimo in cui si lancia sul perfido messicano. Dietro di loro, un sole infocato nel cielo blu. La bustina protettiva era lucida e intatta. Come appena sostituita.

Non sono riuscita a trattenermi. Ho preso La mano rossa e li ho raggiunti in salotto pronta a dare battaglia. E a negoziare con mio marito l’acquisto di una nuova libreria per casa nostra.

Carla B&W rettangolare

Carla Bellavia (1969) vive a Roma. Nella vita fa la moglie. la madre, la figlia, l'amica, la manager, l'autista, il personal coach e svariati altri mestieri. A cinquanta anni, dopo una lunga pausa, ha ricominciato a scrivere, per inquietudine. E non riesce a smettere.

Racconto Sarah Calzolaro

unaltra stagione

Un racconto di Sarah Calzolaro
Numero di battute: 2432

Nevicava fitto. Ci fermammo in una piccola conca a una cinquantina di metri dalla porta di casa. A parte il quieto sciabordare delle onde sulla riva, si sentiva solo il fischiettio di papà che, di tanto in tanto, scostava una ciocca indisciplinata dalle tempie di mamma. Lei era sempre stata tutta impeto e furore, e questa sua immagine beata, profondamente connessa alle frequenze del mare mentre si lasciava imbiancare dai fiocchi di neve, mi disorientava.

Mi ero separato da mia moglie venti giorni prima, e mi ritrovavo come un adolescente, a passare le vacanze da mamma e papà. Solo che loro erano diventati nonni e al posto dei nipotini c’ero io, in pigiama e calzettoni, sdraiato sul divano, con il dito incollato al telecomando.

«Carlo ti avrà chiamato quattro volte, perché non vai?» disse mia madre con uno sguardo pieno di compassione.

«Non stasera. Lo richiamo domani» tagliai corto. Non ne volevo sapere di veglioni e musica fino alle ore piccole.

«Non stasera.
Lo richiamo domani.»

Il cane zampettava eccitato da una parte all’altra della stanza, col collare in bocca.
«Incredibile. C’è la neve che cade sulle dune…»
Mamma prese il guinzaglio e il bastone, arrotolò la sciarpa intorno al collo di papà e mi diede tre minuti per raggiungerli in spiaggia.
Misi il cappotto e gli scarponi sopra al pigiama, accesi una sigaretta e li seguii.

A un certo punto lui, curvo come una canna di bambù stormita dal vento, le porse la mano e improvvisò una danza aggraziata. Le loro figure roteavano mute, come guidate da una musica che non potevo ascoltare, i loro corpi ristretti dagli anni sprofondavano nel candore di un paesaggio lunare.

A me, quello scenario marino non diceva niente di nuovo: era uguale a sé stesso da quarant’anni, anzi, decisamente angosciante sotto a quella nevicata, eppure i miei genitori erano lì a contemplarlo come il quadro d’autore di un’altra sorprendente stagione.

Cosa avevo combinato in tutto questo tempo? La casa a Milano, la fila per andare al lavoro, la corsa per arrivare in palestra, il tapis roulant, l’aperitivo, la fila per tornare a casa, la sveglia. Ripeti.

Non sapevo che fine avesse fatto tutto quel tempo e neanche cosa fosse rimasto a testimoniarne il passaggio. Invece per loro non era così, era come se il tempo avanzasse nei solchi delle loro fronti e poi, in maniera esattamente inversa, tornasse indietro a quando sperimentavano il mondo, con il loro sguardo placido e sognante: lo sguardo di chi ha un avvenire davanti.

Sarah Calzolaro

Sarah Calzolaro è un’autrice-illustratrice appassionata di culture orientali. Dopo la laurea in lingue e civiltà orientali, soggiorna per un anno in Giappone, dove insegna italiano. In Italia, prosegue la carriera come insegnante di lingue straniere e dal 2019 ricopre il ruolo di dirigente scolastico in Toscana, dedicandosi alla scrittura e all’illustrazione.

andrea consonni racconto 3

teste

Un racconto di Andrea Consonni
Numero di battute: 1882

La puzza dei clienti mi resta addosso per ore, giorni, mesi. Mi basta parlargli per trenta secondi per sentirmi avvolto dall’hamburger che hanno mangiato mezz’ora prima. Travolto tal sudore che gli cola dagli occhi dopo un pomeriggio in palestra. Dall’odore di bambini che esala dalle sale alla fine di una proiezione. Posso lavarmi quanto voglio quando torno a casa ma la loro puzza mi resta incollata addosso come una patina di olio bruciato. Consumo inutilmente flaconi su flaconi di shampoo, detergenti, confezioni di saponette, dentifrici per ripulirmi da tutto questo schifo.

L’altra mattina mentre mi facevo la barba la mia pelle puzzava dello sguardo della tizia che mi aveva chiesto perché non possiamo aprire prima la domenica. A colazione i biscotti sapevano del deodorante del tizio che un venerdì mattina era venuto a rompere i coglioni per il cellulare che suo figlio aveva perso in sala.

«Emma mi riconosce solo se prima faccio due docce.»

Emma mi riconosce solo se prima faccio due docce. Si lamenta. Miagola incessantemente davanti a quello che per lei è solo uno sconosciuto. Cerco di spiegarle come vanno le cose da un po’ di tempo a questa parte ma lei vorrebbe solo che tornassi a sdraiarmi sul divano insieme a lei leggendole Il dottor Zivago e grattandole le guance senza portare a casa tutta questa puzza di merda.

Stasera quando sono rientrato l’ho trovata sdraiata nella vasca sopra a un paio di mutande e alla giacca del matrimonio. Dormiva. Ha sbadigliato quando mi sono avvicinato a lei. Mi sono seduto sul bordo della vasca, le ho offerto la testa di un uccellino e le ho raccontato di un paesino in una valle discosta dove vorrei portarla a vivere e le ho promesso che appena potrò non lavorerò più, non preparerò più popcorn, non incontrerò più clienti, e che rimarrò sempre a casa con lei. Lei mi ha guardato, ha mangiato la testa dell’uccellino ed è rimasta in attesa che gliene dessi un’altra.

Consonni Andrea bio

Andrea Consonni (1979) lavora come addetto alle pulizie e preparazione popcorn in un cinema multisala di Lugano.

racconto gallucci simonetta

la picondría

Un racconto di Simonetta Gallucci
Numero di battute: 2458

«La controra è fatta per inseguire pensieri senza costrutto e abbandonarsi ad amare considerazioni sul senso di questa nostra esistenza che, immancabilmente, ci sfugge.»

Direbbe così Tonino, se solo avesse fatto le scuole fattizze. Invece ha soltanto la terza elementare; e quindi, se un passante dovesse chiedergli: «Che hai?», lui risponderebbe: «La picondría».

Emozione difficile da spiegare, tutta compresa nella posa: Tonino siede davanti all’uscio di casa, con le mani sulle cosce, le palpebre socchiuse e lo sguardo alla piazza.

Sembra quasi stia per addormentarsi; desidererebbe un sonno ristoratore, e invece: «Macché» ha detto sbuffando poco fa, quando si è steso sul letto matrimoniale, troppo grande da quando Michelina se n’è andata. Lei non l’avrebbe mai lasciato da solo a contare i giorni e gli anni; «quella fetente me l’ha portata via di notte.»

«Quella fetente
me l’ha portata via di notte.»

Sua moglie è morta da un mese, e Tonino ancora non si capacita di non averla protetta abbastanza. Quella mattina, svegliandosi percorso da un brivido di freddo, aveva allungato la mano, scoprendo che il gelo proveniva dal corpo rigido di lei. Le si era fatto vicino, aveva provato a prenderla tra le braccia per scaldarla, ma niente: era morta morta. Si era abbandonato al pianto, che aveva bagnato la camicia da notte di cotone grezzo della moglie.

Dal giorno dopo il funerale, Tonino non è riuscito più a dormire. «Se viene a prendermi nel sonno, non se ne accorge nessuno» si dice. Così ha preso ad aspettare la morte davanti casa. Guarda la piazza, deserta e abbacinata dal sole. Spinge lo sguardo in avanti, verso il vicolo che immette nel centro storico: una settimana fa, proprio in quella strada, la fetente è andata a prendersi Peppino.

Spera soltanto di riconoscerla, quando arriverà. La cataratta ormai gli ha accorciato l’orizzonte, e Tonino fatica: cose e persone sono diventate per lui soltanto ombre che fluttuano in un paesaggio indistinto. Gli altri sensi, però, per compensazione si sono affinati. «La riconoscerò dall’odore» si dice, «o dal rumore dei passi» ma nulla sembra disturbare l’immobilità della controra.

Quando i primi paesani cominciano a radunarsi nell’unico bar della piazza, Tonino si rialza a fatica per raggiungerli. «E nemmeno oggi è venuta, la fetente» dice al gatto randagio che da qualche giorno ha accolto in casa e che ora lo osserva dietro il vetro della portafinestra. «Non sono una fetente» miagola questo. «Vai a salutare gli amici. Ti aspetto qui.»

simonetta gallucci

Simonetta Gallucci (1984), pugliese trapiantata a Milano, sognatrice indefessa, lavora su Excel ma sogna di poter usare soltanto Word. Ha imparato a scrivere a quattro anni e da allora non ha più smesso. Collezionista di corsi di scrittura; l'ultimo frequentato è il percorso annuale Belleville. Ha collaborato in qualità di redattrice con Recencinema e Whipart.