Pastrengo Agenzia Letteraria

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racconto valeria belardelli

mattonelle

Un racconto di Valeria Belardelli
Numero di battute: 2490

Sotto la schiena, il pavimento era molto più freddo di quanto le fosse mai sembrato sotto ai piedi nudi.

E se non fosse più riuscita a rialzarsi? Sarebbe rimasta lì, mentre le ore passavano e diventava buio, una vecchia nuda su un pavimento di mattonelle verdi. Vecchia. “Anziana” le sembrava una minestra riscaldata, un termine senza forza. “Vecchia”, invece, era una signora che brandiva un bastone e colpiva sulla testa chi le dava fastidio, era un braccio nodoso che apriva senza sforzo la macchinetta del caffè.

Lo odiava, quel verde chiaro delle mattonelle, l’aveva scelto Giuseppe. Lei le avrebbe volute blu notte, ma al negozio delle mattonelle lui l’aveva guardata con quella sua solita espressione gentile e dispiaciuta e, come sempre, non aveva saputo dire di no. Così, per quasi cinquant’anni, aveva visto quel verde chiaro ogni giorno.

Sbadigliò. Chissà che cosa sarebbe successo se si fosse addormentata. Se le fosse successo qualcosa Antonietta sarebbe stata la prima a scoprirlo nella sua chiamata delle otto e quarantacinque. Se non le avesse risposto al telefono si sarebbe presentata lì, insieme a Luigi, se non era già partito per il mare con le bambine.

«E se non fosse
più riuscita
a rialzarsi?»

È vero, non correva alcun rischio di restare lì nuda e di sentirsi male, c’era la telefonata delle otto e quarantacinque di Antonietta. Era quasi un peccato. Le era preclusa anche quell’ebrezza, quel brivido di rischiare. Come era stata tutta la sua vita accanto a Giuseppe. Lui non aveva mai rischiato, mai una volta che fosse andato a più di cento all’ora in autostrada, mentre lei, invece, avrebbe voluto mettere le braccia fuori dal finestrino, sentirle tirare via per il vento e pensare “magari succede qualcosa”. Giuseppe la guardava sempre con i suoi occhi gentili e dispiaciuti e le chiedeva: «Ma che succeda cosa?». Per Giuseppe, qualunque cosa era già qualcosa. Fino alla sua morte, un qualcosa più grande di tutti.

Uno spiffero più freddo entrò dalla finestra. Doveva alzarsi da lì, o sarebbe morta anche lei. E non ci teneva, adesso che aveva un po’ di libertà.

Si appoggiò alla vasca e si tirò su. Senza cadere. Fuori dalla finestra arrivavano rumori di pentole e piatti, e la sigla del telegiornale dall’appartamento dei Franchi. Aprì il vetro.

Il vento le arrivò sul viso, la prima aria d’estate. Alzò le braccia per prenderla tutta. E si ricordò di essere nuda. Invece di coprirsi, però, iniziò a ridere. “Una vecchia nuda che ride!” immaginò dire dalle altre finestre aperte. Rise ancora più forte.

Belardelli Valeria Bio

Valeria Belardelli è nata a Roma nel 1990. Ha studiato Drammaturgia a Londra e ha partecipato a vari progetti drammaturgici in giro per l’Europa. Per anni ha fatto l’attrice, ora scrive, è iscritta a una magistrale in Italianistica e insegna Inglese ai bambini. Due suoi pezzi brevi sono stati pubblicati sul Foglio. Scrive ogni settimana un blog, pandipanico, che viene ripubblicato dalla rivista Aware – Bellezza Resistente. Nel resto del tempo fa l’attivista di Fridays For Future, per cui, tra le altre cose, cura un blog sulla rivista Rewriters. 

Francesco Rago racconto

la capsula del tempo

Un racconto di Francesco Rago
Numero di battute: 2427

Sotto casa mia c’è un bar che è una specie di capsula del tempo, se ci entri finisci che ti ritrovi scaraventato una cinquantina di anni indietro, per via dei tavoli verde acqua in formica, dei tendaggi damascati alle vetrine, del manifesto del Biancosarti incorniciato e appeso alla parete dietro al bancone. A qualsiasi ora del giorno e della notte tu ci vada, stai sicuro che seduto al solito tavolo con un White Russian in mano e il sorriso obliquo di chi non c’ha tutte le rotelline a posto, c’è un tipo coi baffi e la erre moscia che si fa chiamare Pruzzo.

Che io una volta gliel’ho provato a chiedere: «Ma perché ti chiamano Pruzzo?».
Lui si è lisciato i baffoni e mi ha risposto: «Perché da piccolo tifavo Roma».
«E vabbè, ma che c’entra? Io tifo Inter ma mica mi chiamano Rummenigge.»
«A te no, a me sì.»
Argomento chiuso con una scrollata di spalle. La scrollata di spalle è un po’ il suo marchio di fabbrica: dopo una o due frasi te ne butta sempre lì una.

Io questo Pruzzo un po’ lo invidio perché riesce a campare senza fare nulla tutto il giorno, l’unica sua occupazione è quella di stare seduto al bar, roba che io se fossi in lui lo scriverei proprio sulla carta di identità. Professione: cliente del bar.

«Ma perché ti chiamano Pruzzo?»

A me invece tocca lavorare per mantenermi e oggi in ufficio ho avuto una giornatina pesante, con il mio capo che pretende sempre di fare le cose di testa sua, il problema è che lui è una testa di cazzo e così poi capita di dover fare dei lavori alla cazzo. Abbiamo bisticciato e mi sono dovuto trattenere dal mandarlo a cagare, solo che poi mi è rimasto addosso il nervoso e ho pensato che è meglio se rimango a distrarmi un po’ in giro. Ho mandato messaggi a mezza rubrica per trovare qualche faccia amica con cui fare un aperitivo, ma tutti a quanto pare sono impegnati: chi c’ha la moglie, chi c’ha l’amante, chi c’ha la palestra, chi c’ha il cane da portare a spasso.

Così mentre parcheggiavo ormai rassegnato ho avuto il colpo di genio di affacciarmi al bar a vedere se c’era Pruzzo. Ovviamente c’è.

«Ehilà» gli faccio.
Lui ricambia il saluto soffocando un rutto.
«Che si dice?»
Scrolla il testone.
Certo che parlare con ’sto tipo ti dà una soddisfazione…

Ordino una birra in bottiglia e me la bevo a collo, perché ho l’ansia di prendere il colera ad appoggiare le labbra a uno di questi bicchieri del secolo scorso.

«Allora?» lo incalzo.
«Uè cocco, se ti va c’ho due biglietti per i Creedence Clearwater Revival.»

bio Francesco Rago

Francesco Rago vive e scrive a Piacenza. Laureato in Scienze della Formazione, attualmente si occupa di formazione professionale presso una società del settore. Ha pubblicato i romanzi Reality 5.0 (Booktribu), Cani Malati in Val Padana (Ultra), Come ti calpesto il cuore (Ferrari), Grandine (La Gru), più numerosi racconti sparsi tra riviste e antologie.

racconto Comandè

minuzie

Un racconto di Doriana Comandè
Numero di battute: 2354

Da un giorno all’altro, lei cominciò a conservare buste. Ogni tipo di busta. Quelle neutre e biodegradabili, i cui manici non sopportano alcun peso. Quelle più robuste, con il logo di una grande catena di supermercati stampato sopra. Quelle di carta del banco pane o della gastronomia.

Lui se ne accorse solo quando aprì un cassetto della cucina e lo trovò stipato di buste ripiegate.
«Che devi farci?»
«Possono servire.»
Infatti, servivano. Lei le utilizzava per la spesa, per la pattumiera, per raccogliere giornalmente gli escrementi del gatto dalla lettiera.

Lui ci mise un po’ prima di registrare alcuni piccoli cambiamenti nel loro stile di vita. Tutte quelle buste accuratamente conservate. Mai un alimento scaduto nel frigorifero, cosa che prima accadeva di frequente, vuoi per distrazione, vuoi perché mangiavano spesso fuori. I volantini delle offerte al supermercato, conservati anche questi. Le camicie stirate senza che in casa spuntasse mai fuori una sola ricevuta della lavanderia.

«Da un giorno all’altro, lei cominciò a conservare buste.»

Era strano, perché, da quando aveva perso il lavoro, lui stava in casa quasi tutto il giorno, a setacciare siti di aziende, a mandare email a destra e a manca. Eppure, non si era mai accorto che lei stirasse le camicie (aveva sempre odiato farlo) o che avesse eliminato una serie di piccoli lussi di cui, tutto sommato, lui non sentì mai davvero la mancanza (forse perché la loro eliminazione era stata così furtiva e graduale).

Una sera, annebbiato dalle troppe ore passate davanti al pc, entrò in sala e la trovò sul divano che leggeva.
«Non guardi una serie su Netflix?»
Lei abbassò il libro: «Ho disdetto l’abbonamento un paio di mesi fa». E davanti all’espressione sbigottita di lui, aggiunse: «Tanto non c’era quasi mai niente che valesse la pena vedere».

Fu l’unico momento in cui l’idea che stessero vivendo in un regime di ristrettezza gli sfiorò la mente. Ma sembrava che fosse tranquilla e, rassicurato, lui si stropicciò gli occhi e tornò davanti al pc.

Esattamente sette mesi dopo, lui trovò un nuovo impiego.
«Ma come abbiamo fatto a cavarcela per tutto questo tempo solo con il tuo stipendio?» le domandò stupito mentre una leggera euforia alcolica, dovuta al costoso vino che stavano bevendo per festeggiare, dilagava in lui.
Lei gli fece segno di versarle un altro po’ di vino. «Il trucco» gli rispose, «è che almeno uno dei due non se ne accorga.»

foto comandè

Doriana Comandè è nata a Roma quarantasei anni fa. Dopo la laurea in Storia e Critica del Cinema, con una tesi su Ingmar Bergman, ha scritto saggi sulle serie tv e fatto interviste a giovani registi indipendenti. Poi è diventata un’insegnante di scuola superiore, lavoro che ama quanto la scrittura. Ha pubblicato alcuni racconti. L’ultimo, Un’amena visita in psichiatria, è uscito su Rivista Blam!

piacentini federico

l' oblò

Un racconto di Federico Piacentini
Numero di battute: 2497

Sollevo la massa informe che mi attorciglia il braccio. Qualcosa cade in terra mentre apro la porta e mi avvicino alla macchina. Quando mi volto sembrano pezzi di un corpo setoso. Un calzino qua, una mutanda là. Colori diversi che escono dalla massa che trasporto fino alla bocca rotonda che li deve inghiottire. Nel mondo c’è sempre dello sporco da lavare, come l’anima nera delle persone. Il lezzo deve essere occultato, il fetore, le patacche di unto, di sangue, di ceree secrezioni umane, di cheratinici filamenti scuri provenienti da mascelle, crani e arti.

Infilo la massa di tessuto intrecciato nella bocca rotonda. Sento come una leggera pressione negativa, come un risucchio. Come se anche io fossi lercio. E di certo lo sono dopo quello che ho fatto. I panni di noi due usati per l’ultima volta cadono dentro nella loro informe crespatura di cotone.

«Nel mondo
c’è sempre dello sporco da lavare.»

Mi alzo e raccolgo i pezzi caduti. Cotone liso, lana infeltrita. Me li rigiro tra le mani con ripugnanza e li getto nella bocca. Chiudo l’oblò, inserisco il sapone, materia bianca di purità assoluta che viene a mondare il mondo, a detergere il tergo, a risciacquare l’acqua sporca di macchia. Premo. La macchina carica un lamento come fosse irritata di essere svegliata dal torpore. Cala acqua sulla superficie levigata dell’oblò che trattiene tutto lo sporco del mondo.

D’un tratto vedo un punto grigio all’interno del vetro. Mi chino. Una mosca. Una piccola mosca ignara. Provo ad aprire il portellone ma è chiuso in una univoca e crudele scelta temporale di lavaggio. La mosca inizia a girare insieme alla massa mentre scure gocce la fanno scivolare. La massa e la mosca diventano un unico vortice grigio di rotazione come il viso di lei mentre mi allontanavo.

Mi dispiace. Più di quanto credessi. La mosca non meritava questo: non era sozzura umana come me, come noi, ma solo una mosca. Mi allontano e mi accorgo che la porta della stanza adesso è rotonda. La spingo ma non si apre. È formata da uno spesso strato di vetro da cui riesco a percepire il mondo esterno anche se distorto.

Provo ancora a forzare ma niente. Un brontolio in sottofondo e l’acqua inizia a cadere intorno a me dal soffitto. Mi si bagnano i vestiti come quando l’ho lasciata. La sua figura sfocata fuori dall’oblò. Il pavimento inizia ad allagarsi, batto sul vetro, gli urlo contro, impazzito. Ma all’improvviso capisco. Mi ha chiuso qua, del resto me lo meritavo. Fuori la sua silhouette melliflua se ne va, svanisce chissà dove mentre tutto comincia a ruotare.

Piacentini Federico

Federico Piacentini nasce in Toscana. Laureato in Medicina e chirurgia esplora da anni il mondo della scrittura. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come Quaerere, RivistaBlam!, ILDA. Sta lavorando al suo primo romanzo.

melampo racconto

il dito

Un racconto di A. Melampo
Numero di battute: 2494

Un dito.
Abbandonato tra la scatola del cambio e il sedile del passeggero.

Aveva sentito un piccolo tonfo sordo mentre aspirava gli interni della Modus color miseria della Signora Parisi. Poi il sibilo sforzato dell’aspiratore, una specie di patetica asma. Sfilando il bocchettone da sotto al sedile, una roba rosata e molliccia era caduta sul tappetino, macchiandolo appena, per poi rimbalzare sull’asfalto del parcheggio.

Come assalito da un insetto, Sangeij era arretrato con un balzo. Il piede gli era rimasto incastrato nel tubo di plastica dell’aspiratore ed era finito culo a terra.

Da quella posizione, aveva osservato la piccola presenza aliena. Un dito mozzato. L’anulare, pensò, ma non avrebbe saputo dire perché. Il taglio era talmente netto che pareva fosse stato ghigliottinato. Il poco sangue alla base, per lo più secco, faceva intendere che fosse lì da un po’.

«L’anulare, pensò, ma non avrebbe saputo dire perché.»

Si sollevò dall’asfalto, entrò nell’ufficio e si procurò un sacchetto di plastica, di quelli per il ghiaccio, con la chiusura ermetica. Scrostò un po’ di brina dal frigo delle bevande e la versò nel sacchetto, riempiendolo per un quarto. Quindi, prese un pezzo di carta assorbente e tornò nel parcheggio. Il dito era sempre lì, una specie di lunga larva rosa nel grigio triste del pomeriggio, vicino all’auto con le portiere aperte. Lo raccolse trattenendo un moto di disgusto e lo inserì nella busta. Rientrò nel negozio e depositò il sacchetto dentro al frigo, tra le scatole dei gelati. Poi tornò all’auto e riprese il suo lavoro.

La Signora Parisi arrivò alle quindici in punto.

Era un’ottantenne elegante e cortese, che profumava di talco. Portava cappellini ridicoli e fuori moda. Al collo, appeso a una cordicella dorata, teneva un paio di occhialetti ovali che nessuno le aveva mai visto indossare.

Salutò Sangeij con un sorriso affettuoso, chiese notizie della piccola Amany e poi pagò i dodici euro del lavaggio, estraendo le monete dall’enorme borsellino.

Si congedò con gentilezza e fece per uscire dal negozio. Arrivata alla porta, indugiò per un attimo. Poi si voltò e tornò al bancone, dove giacevano dimenticate le chiavi della Modus. La signora allungò la mano per afferrarle. Una mano lucida, la pelle sottile come carta velina. Una mano a cui mancava un dito, mozzato alla base. L’anulare.

«Stavo dimenticando queste» disse con un sorriso ingenuo. «Sarei capace di perdere pure la testa, se non l’avessi attaccata al collo.»

Quindi uscì dal negozio, accompagnata dal suono del campanellino appeso alla porta.

A Melampo bio

A. Melampo vive in un piccolo borgo nel Nord della Toscana. Scrive canzoni e racconti. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo.

racconto Maruelli

esercizi di inutilità

Un racconto di Stefania Maruelli
Numero di battute: 2441

Fare i conti con la mia mancanza di utilità ha richiesto una sorta di fisioterapia, come se stessi curando un polso slogato. Ecco il mio esercizio: aprivo una porta e immaginavo il mondo ideale. Se ne stava lì, a portata di mano. Aprendo la porta del bagno, commentavo ad alta voce che bella giornata fosse, alla porta della camera da letto raccontavo i miei appuntamenti inventati. Allungavo una mano nell’armadio e dicevo, Che bello, oggi metterò questo vestito.

Facevo pratica con le porte e le ante dopo che Luca se ne usciva per andare al lavoro. Aspettavo di restare sola fingendo di dormire, poi, appena sentivo chiudersi la porta di ingresso, sgattaiolavo fuori dal letto e correvo in cucina, aprivo la dispensa e dichiaravo che avrei fatto una torta – di mele, soffice – da mangiare col secondo caffè. Quindi riscaldavo quello avanzato e lo buttavo giù appena prima di accendermi una sigaretta.

Hai visto che sole? dicevo alla finestra, oggi andrò a fare una passeggiata. Dopodiché la richiudevo e tornavo a letto; non mi alzavo mai prima di mezzogiorno, quando scendevo a ritirare la posta – pacchi di Amazon perlopiù (maschere per il viso, pillole, integratori, sonniferi) – dalla portinaia.

«Aprivo una porta e immaginavo
il mondo ideale.»

Farmi vedere da lei era importante: significava che quella mattina mi ero svegliata, significava che stavo curando quel polso slogato, significava che non ero del tutto inutile. Mi infilavo il cappotto sopra il pigiama, raccoglievo i capelli e mi passavo del rossetto sopra le guance; le sorridevo. Lei mi allungava i pacchetti e intanto mi valutava: se andavo bene mi salutava con un cenno senza smettere di parlare al telefono, se andavo male mi sorrideva e mi apriva il portone – allora ero costretta a uscire e tornare dopo mezz’ora. Capitava almeno un paio di volte a settimana. Mi allungavo fino al bar all’angolo e chiedevo un caffè che bevevo controllando il portone di casa: appena lei usciva, io tornavo.

Il pomeriggio era più lento, lo passavo sui social a controllare la vita degli altri come la portinaia controllava la mia; alle sei aprivo una bottiglia di vino, riempivo un piattino di olive e bevevo sul divano mentre andava il telegiornale. Non sempre era interessante, allora cercavo una malinconia, a volte piangevo pensando a un uomo inventato; quando Luca tornava accendeva le luci, svuotava la spesa, apparecchiava la tavola; io allora infilavo un paio di jeans e passavo di nuovo il rossetto.

maruelli stefania

Stefania Maruelli vive a Milano dove lavora come copy e editor freelance. Ha frequentato corsi di scrittura creativa presso Scuola Holden, Belleville e Bottega di narrazione. Ha studiato editing con Michele Vaccari e con Francesca de Lena. Suoi racconti sono apparsi su inutile, Narrandom, L’Inquieto, L’irrequieto, Risme, Allarmata radura e altre riviste online.

gianfranco martana racconto

la dirimpettaia

Un racconto di Gianfranco Martana
Numero di battute: 2302

Di fronte alla mia finestra c’è un’altra finestra. Separate da una lama d’ombra, sono altissime entrambe, come piante cresciute a dismisura per cercare il sole. A volte noi del vicolo ci affacciamo insieme, attratti da fuochi lontani o grida disperate. In quei momenti sembriamo i passeggeri di due treni fermi da tempo che, inquieti per l’attesa, sporgono la testa come vacche alla rastrelliera, finché non si riparte in direzioni opposte.

La mia dirimpettaia è giovane, non può ricordare i treni coi finestrini che si aprono, e forse non ha mai visto una vacca. Anche la parola “dirimpettaia” dev’esserle ignota, caduta in disuso da quando vivere faccia a faccia non è più un invito a conoscersi. Di fatto, fu proprio così che conobbi la mia prima fidanzata: eravamo due autoritratti nella cornice della finestra e ci guardavamo come se fossimo due opere d’arte.

Da un po’ di tempo, la gente del vicolo sporge la testa ogni sera per cantare. Dicono che attenui l’ansia, ma io ci credo poco, e mi affaccio solo se si affaccia lei, canto solo se canta lei. Se non conosco le parole faccio finta, se lei storce la bocca lo faccio anch’io, e la guardo negli occhi con occhi che ridono, per insinuare malevolmente che certe canzoni sono più un danno che un rimedio.

«Di fronte alla mia finestra c’è un’altra finestra.»

Oggi è apparsa nella sua cornice con un grazioso broncio di sonno e una maglietta stropicciata. «Appena svegliata?» Ha fatto di sì con la testa sull’attacco di Azzurro. «Di notte non dormo e di giorno finisce che crollo. Cantiamo? Mi accorgo di non avere più risorse senza di te...» Abbiamo cantato, abbiamo applaudito con sciocca commozione e, ritirando le nostre teste, siamo tornati a quello che restava delle nostre vite.

Dopo un po’ sono tornato alla finestra per lasciare sul davanzale una manciata di ceci, come promemoria di un’idea per una di quelle notti in cui neanch’io riesco a dormire. Se riuscirò a trovare il coraggio, mi alzerò dal letto allo spegnersi delle ultime voci del vicolo e li lancerò uno alla volta sul vetro della sua finestra finché non sarà venuta ad aprirla; a quel punto, se non me la richiuderà sul muso, le parlerò delle teste che sporgono dal treno inalando un’aria di ferro, della stalla tiepida e scura dei miei nonni e dei dirimpettai che, in un tempo lontano, si davano reciproco sollievo dall’insonnia.

Martana Gianfranco

Gianfranco Martana è nato a Napoli nel 1971. Cresciuto a Salerno, si è trasferito prima a Brighton e poi a Valencia. È dottore di ricerca in Italianistica. Autore di una quarantina di racconti pubblicati in riviste italiane e spagnole, è stato finalista al Premio Solinas con la sceneggiatura Mammaliturchi!, che a breve uscirà in forma di romanzo presso Inknot Edizioni. Il suo primo romanzo è stato Un’opera di bene (Ellera, 2015).

racconto fedeli dario

il bambino eroe

Un racconto di Dario Fedeli
Numero di battute: 2450

Le macchine che stendevano il bitume ringhiavano, gli operai vociavano, ma lei ancora se ne stava rannicchiata sotto le coperte.

Lui sarebbe rimasto a guardarla per ore, ma invece corse a spalancare la finestra: voleva che ogni rumore esplodesse nella stanza. Ma neanche quello fece tornare in vita la bella addormentata.
Allora le scosse piano una spalla. «Rossella.» Niente. «Rossella»; una supplica sbiadita gli colorava le labbra.

Alessandro guardò l’orologio: erano le 7:10. Diede subito le spalle a quella figura nel letto, simile a una bambola di pezza, e raggiunse con ampie falcate la camera di Ginevra e Daniele. Aprì piano la porta e poi poggiò una mano sui corpi addormentati dei fratelli.

«Chi è pronto per dei pancake con la nutella?» ed entrambi scattarono come due molle.
«Io, io!» squittirono in coro.
«Chi finisce di prepararsi per primo se ne becca due in più!»

«Voleva che ogni rumore esplodesse.»

Neanche venti minuti dopo, Ginevra e Daniele erano a tavola, lindi e puliti. Alessandro mise i pancake nei piatti dei fratelli, lasciò loro il controllo della nutella, sperando che non si sporcassero.

Poi si precipitò in bagno per prepararsi. Mentre si lavava i denti, fissò il suo riflesso: le labbra gli tremarono, ma poi il bitume che bruciava qualche piano sotto di lui cominciò a scorrergli nella pancia, e lì si mescolò e rimescolò; l’umida debolezza che ricopriva Alessandro arse come una strega sul rogo.

In tempi record, lasciò Ginevra e Daniele alle elementari, poi raggiunse il parcheggio della scuola media; una macchina lo superò: Leonardo Svani scese, la madre gli porse la cartella, lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.

Quando si girò e vide Alessandro, Leonardo s’intirizzì e si allontanò dalla madre, che corrugò la fronte; Alessandro distolse gli occhi, due tizzoni ardenti, e salì la scalinata che lo portò al cancello della scuola.

I suoi compagni di classe gli andarono incontro appena lo videro, le loro battute si arrampicavano le une sulle altre. E Alessandro si ubriacò di quelle attenzioni.

Ma poi arrivò Leonardo, e lui ripiombò nel pozzo pieno di mancanze che tentava di scalare da quando il padre era fuggito con la badante della nonna.

«Leonardo» chiamò Alessandro, punto da qualcosa in mezzo al petto. «Attento che i bacetti della mami non ti facciano fare tardi in classe», e tutti scoppiarono a ridere.

Ma per quanto quelle risate accarezzassero Alessandro, il bitume gli entrava a forza in bocca.
E lui non poté fare altro che ingoiarlo.

fedeli dario bio

Dario Fedeli, classe 1996, è l’autore del romanzo distopico Choiceless (Bookabook). È attivo sia su TikTok sia su Instagram, social che gli permettono di tenersi in contatto con la sua community di lettori. In ogni attimo di tempo libero, si dedica alla scrittura e alla lettura.

racconto Taboga Paola

senza parole

Un racconto di Paola Taboga
Numero di battute: 2449

Lei legge un libro.
Lui, il giornale.
Il sole svagato dell’inverno filtra dal finestrino con una strana, prepotente negligenza.

Lei si alza per abbassare le tendine.
Lui solleva lo sguardo in automatico. Quel tanto che basta per notare una figura esile annegata nei pesanti pantaloni grigi. Il movimento della ragazza riempie lo scompartimento di un profumo fresco: muschio bianco.

Lei riprende il libro guardando il compagno di viaggio che però è quasi del tutto nascosto dal giornale.
Sembra un abat-jour, pensa. Le gambe come base, il giornale come paralume.
Sorride.

«Lei legge un libro. Lui, il giornale.»

Lui gira la pagina e, senza volerlo, nota il viso della ragazza.
Basso, chino sulle pagine fitte. Un viso quasi da intuire.
La fragranza di muschio persiste. Gli piace quell’odore pulito.
Ricomincia a leggere. Ma le parole gli sfuggono, sembrano macchine che sfrecciano veloci e vanno via.
E poi i caratteri prendono a muoversi, quasi fossero attirati da quel richiamo fragrante di muschio, e si raccolgono ai lati del giornale. Al centro, in quella nuova pagina bianca, adesso, c’è il viso della ragazza.
Abbassa di poco il giornale per riuscire a osservarla, di nascosto.
Ha capelli chiari e sottili, pettinati in modo da lasciare libera la fronte, che è alta, con due rughe piccole al centro. Segni di pensieri antichi e persistenti.
E vede le sopracciglia. Lievi e ordinate come cerniere chiuse.

Lei si sposta con un rumore gentile e lui distoglie subito lo sguardo, si imbarazza.
Finge di riprendere la lettura.
Ma poi, con un gesto quasi esasperato, abbassa di nuovo il giornale.
Vede il naso diritto, le palpebre azzurrine – ha la pelle sottile – gli zigomi rotondi.
Un’inutile, qualsiasi ragazza giovane e per bene.
Normale, come una mela un po’ rossa e un po’ gialla.
Ma la fronte e le sopracciglia, no. Ecco. Ecco cos’è.
Quella ragazza ha la stessa fronte e le stesse sopracciglia di sua madre.
E quello stesso profumo.

Lei, continua a leggere.
Ogni tanto però, si muove: accavalla le gambe, cerca qualcosa nella borsa, sposta i capelli.
Non sa di sprigionare profumo, di evocare ricordi. Ma avverte delle piccole scosse ovunque, soprattutto dentro gli occhi, fino nelle sopracciglia, sulla fronte, alla radice dei capelli. Indizi sparsi di felicità.
Prova a guardare l’uomo abat-jour ma, di nuovo, non riesce a vedergli la faccia. Può solo immaginarla.
Nel frattempo, aspetta. Perché lei sa, senza saperlo davvero.
La ragazza sa che l’uomo abat-jour si sta illuminando.

bio taboga paola

Paola Taboga è giornalista. Adora leggere e scrive per tenersi compagnia. Ha vinto alcuni concorsi letterari, fra gli ultimi Racconti nella rete 2023. Ha pubblicato Storie di Storie (MobyDick 2009). Altri sono usciti su varie riviste, fra le più recenti Nazione Indiana e, prossimamente, Crack.

racconto Simone Massara

la questione del gotico
maniscalco stanco

Un racconto di Simone Massara
Numero di battute: 2457

Un maniscalco gotico, stanco d’esser maniscalco, leggeva un romanzo seduto in poltrona presso la finestra. Non prestava attenzione al libro. Sul tavolo al suo fianco, un bicchiere mezzo vuoto era illuminato dai chiari raggi solari fluttuanti attraverso il vetro della finestra. Gli attrezzi arrugginiti riposavano sul bancone, in fondo, e il caminetto ardeva dolce, languido nelle sue stesse braci.

Ma il maniscalco attorcigliava le meningi, come le gotiche edere miniate nei codici, attorno a una domanda. La domanda gli pareva sciocca. Eppure al tempo stesso così pregnante. Lo assillava quando la evitava; una zanzara, che torna a ronzare nell’orecchio, gli occhi appena chiusi, in una notte d’estate. Non trovava risposta, scacciava la domanda, e questa ritornava. Gli occhi inciampavano sul romanzo, e il bicchiere era sul tavolino, gli attrezzi abbandonati lì, in fondo alla sala, il caminetto ardente all’angolo, le ombre sul legno del pavimento parevano scricchiolare, e la domanda era: “Cosa fa un maniscalco?”.

Tremava tutto. “Cosa fa un maniscalco? E, per di più, se è anche gotico? Cosa lavora? Che attrezzi usa? Chi va dal maniscalco?”

«Cosa fa un maniscalco?»

Perché, a dirla tutta, forse il nostro maniscalco gotico, stanco della sua vita da maniscalco, questa parola designante il suo mestiere la conosceva solo per sentito dire, per le fiabe, i vecchi libri, le leggende… Lui stava lì seduto a leggere, ed era un maniscalco. Immobile, inamovibile era; mentre la realtà scalciava.

Fuori brillava il sole, una luce ineluttabile (impossibile sbagliarsi su quanto fosse reale quella luce!), eppure lui era sempre lì e faceva sempre di mestiere il maniscalco. Era mai possibile una cosa del genere? E come ci era arrivato, poi, a fare il maniscalco? C’erano degli studi? Aveva un diploma da maniscalco? Un certificato, una patente, un riconoscimento qualsiasi della gilda dei maniscalchi? E tutto questo ripetere quella parola, lunga e strana, dal suono spezzato, non la rendeva assurda, allucinante?

Allucinato, sentiva il suo corpo in migliaia di particelle immerse nel viscoso elemento di un tempo bloccato in un presente eterno, paradossale, ed era spaventato oltre l’inverosimile, mentre manteneva il suo atteggiamento discreto, lì accanto la finestra, col suo romanzo in grembo, e dentro un tremendo terremoto lo sventrava. Il nostro maniscalco. Neanche una lacrima. Ma tutto quello spavento. Quell’Etna nel torace. Quella domanda: così strana e vera. Così ingiusta.

Massara Simone bio

Simone Massara è nato a Messina, e tra Sicilia e Calabria ha trascorso gran parte del suo tempo. Adesso passeggia a Roma, dove studia anche Filologia moderna.