Pastrengo Agenzia Letteraria

Category Archives: Rivista


Frighetto Gianandrea

visoni

Un racconto di Gianandrea Frighetto
Numero di battute: 2421

Avevo tredici anni la prima volta che vidi un visone.
Ero con mio cugino, un armadio biondo pannocchia con un sorriso furbesco, e la sua compagnia. Ci aggiravamo tra le campagne dove il dialetto comandava pure sulle vetrine dei negozi.

«Gheto mai fumà?» mi domandò qualcuno.
«Certo» dissi al gruppo. «Philips, Marlboro, Camel» elencai, fregate a ogni sorta di parentela.
«Ma non visoni» commentò il cuginetto.

Aveva due anni in meno, come tutti quelli della banda. Tra le dita teneva un ramoscello striato come una tigre, dal profumo esotico. Un forellino sottile quanto uno stuzzicadenti lo passava parte per parte.

«Gheto mai fumà?»

«No ghi nemo bastanza» se ne uscì quello ribattezzato Carega.
«Ndemo allora» ruggì il cugino, la bici stretta sotto le manone.

Salii con lui, in piedi sul portapacchi. In testa al gruppo zigzagammo tra case diroccate, campi di granoturco, pisciammo sui muri, qualche petardo volò contro la canonica. Maledizioni e parolacce al don e alle sue messe.

Prendemmo un sentiero sterrato che terminò in una fitta boscaglia.
«Di qua» disse il cugino, che mollò la bici e si lanciò armato di bastone.
In mezzo alla selva, un groviglio di liane infestava un vecchio faggio. Il visone sembrava un lungo serpente avvolto sulla preda.

I ragazzi si misero all’opera cercando i rami più secchi. Tastavano e annusavano con le lame pronte. Ogni tanto una fiammella illuminava le loro facce.

Il cugino ne accese uno e poi me lo passò in una nuvola di fumo. Inspirai quell’aroma selvatico, dolce e spigoloso allo stesso tempo.
«Sei dei nostri» disse con un risolino. Parlava in italiano con me.

Intanto dal sentiero era arrivata un’altra compagnia, qualcuno sussurrò che erano quelli di terza. Avevano la mia età eppure sembravano più duri e cattivi.
Volarono parole, qualche culo smutandato al vento, ma nulla più.

Ci rimettemmo in sella e mi spiegarono che i visoni erano terreno di tregua. Un po’ per ciascuno e poi se le sarebbero date fuori da scuola o a calcio.
Il resto del bottino ce lo fumammo strada facendo, fino all’orto di zia. Le caramelle alla menta lavarono via le malefatte, prima dei saluti.

Non tornai più in campagna, non cercai più visoni con mio cugino e la sua banda. Qualche anno dopo smisi pure con le sigarette. Ci sono volte però in cui scendo in cantina e mi siedo sulla vecchia poltrona. Tiro fuori quel primo mozzicone di visone e lo cicco con gli occhi chiusi, in bocca il dolce sapore di poter essere scoperto.

frighetto gianandrea bio

Gianandrea Frighetto nasce a Bassano del Grappa, cresce a Rosà e corre tra le calli veneziane per laurearsi in Economia e Beni Culturali. Lavora in una cartotecnica, legge e scrive da sempre. Qualche racconto è stato pubblicato tra concorsi e riviste. Nel 2022 esce il suo primo romanzo, Santa Kultura (La Ruota) e diventa papà. Ha trent’anni in difetto.

racconto rudi capra

ichi

Un racconto di Rudi Capra
Numero di battute: 1343

Ichi Tohaku fu un illustre matematico. Visse tutta la vita a Sendai, in una casa senza luce elettrica né riscaldamento.

Comprese da giovane che il problema fondamentale della natura umana è quello della singolarità e passò una vita a cercare di risolverlo. Una sola nazione, una sola religione, una sola donna, una sola vita e una sola morte. La natura umana è schiacciata in quest’unità soffocante e Tohaku cercò una teoria matematica in grado di spezzarla.

Una vita nomade vissuta in tanti luoghi e tante donne, con tanti futuri a disposizione in notti e giorni paralleli.

In una fredda primavera del 1964, mentre la gatta miagolava alla porta per entrare, Ichi trovò la soluzione. Applicandola in ambito fisico, avrebbe biforcato la propria esistenza lanciando sé stesso verso una serie inarrestabile e potenzialmente infinita di biforcazioni.

«Attese.
Invano.»

Attese. Invano.

Controllò e ricontrollò i calcoli, ma risultavano corretti.

Infine comprese: l’unità fondamentale della sua persona era stata scissa, ma Ichi era quello rimasto al di qua della biforcazione, mentre l’altro Ichi era stato sparato verso un futuro ramificato ed espanso. Senza alcuna possibilità di incontrarsi.

Ichi era rimasto nell’unità angusta della stanza rettangolare con il tatami srotolato, la gatta che miagolava fuori dalla porta e un piovasco leggero che cadeva dal cielo bianco.

rudi capra bio

Rudi Capra è ricercatore in Filosofie dell’Asia orientale e critico cinematografico, attualmente a Torino. Ha diverse pubblicazioni all’attivo e due monografie, una sul pensiero interculturale e una sul cinema di Nicolas Winding Refn. Suoi saggi e racconti sono apparsi anche su L’Indiscreto, Risme, Singola, Digressioni, Le parole e le cose.

zannini emma racconto

a luce spenta

Un racconto di Emma Zannini
Numero di battute: 2495

Da bambina correva nella via sterrata, e cieca, che separava i terreni di B. e C., vecchi contadini, e con lei c’erano sempre tre maschi della sua stessa età, cugini fra loro, e la sua sorellina, tremenda forse più di tutti. Erano, insomma, una banda.

Per quella strada ci passava solo, e raramente, qualche trattore, a volte le bestie, e in vista non c’erano case, solo distese infinite di erba che terminavano nel cielo immenso. Tutto era a disposizione loro e dei loro giochi. Soprattutto, gli piaceva stare attorno al vecchissimo albero di castagno, solitario, nel bel mezzo del terreno di B., e l’avevano designato la loro base.

Da lì la stradina si vedeva ancora, ma dovevano comunque stare attentissimi: se B. li avesse beccati sul suo terreno, sul suo castagno, sulle sue balle di fieno, li avrebbe scacciati coi cani, furibondo, così la leggenda diceva. Lei, però, ricordava una volta che avevano sentito dei cani in avvicinamento, ed era stato il panico. Non avevano avuto tempo di scappare, e si erano arrampicati tutti sull’albero, issando la sorellina un po’ per le spalle un po’ per il braccio, nascondendosi fra i rami.

«Erano, insomma,
una banda.»

Sì, era il vecchio contadino con i due vecchi cani. Erano rimasti appollaiati in silenzio, pregando. Quando poi se ne era andato ed erano scesi dall’albero, erano tutti eccitati da come gliel’avevano fatta. Eppure a lei – aveva taciuto però, perché avrebbero detto che se l’era inventato – eppure a lei era parso che B., passando vicino al castagno, avesse incrociato i suoi occhi, e si fosse girato dal lato opposto, l’ombra di un sorriso.

Quel giorno, quella primavera, erano stati loro a trovarlo. Da lontano sembrava un bozzolo enorme, appeso al castagno, e sua sorella era corsa lì ridendo sguaiata pensando fosse un animale brutto. Poi aveva urlato. Pendeva dall’albero con una sorta di dolcezza, scosso appena dal vento, come una carezza. Gli altri erano corsi a chiamare a casa, solo lei era rimasta lì impietrita: aveva alzato gli occhi al volto di lui, livido su quel cielo azzurro azzurro.

Erano andati a guardare la processione della bara dalla chiesetta al cimitero, la seguiva solo qualche vecchia velata di nero. Tutti, anche il prete, reggevano candele spente. Più tardi, inquieta, aveva chiesto perché, e suo padre le aveva risposto scuro: «Non c’è luce, di là, per chi muore così».

Ancora oggi, quando ritornava al paese, andava a posare fiori su quella tomba, sola, fuori dal cimitero, senza croce. Oltre i suoi, non ne aveva mai trovati altri.

zannini emma

Emma Zannini è laureata in Lettere moderne all’Università di Padova. Si trasferisce a Bologna dopo aver lavorato in un giornale a Roma, consegue la laurea in Italianistica nel 2021 e da allora alterna il suo tempo fra scrittura e insegnamento.

irene montano racconto

vigilia

Un racconto di Irene Montano
Numero di battute: 2297

Luca era ancora assorto nei bagliori intermittenti dell’albero di natale quando Carlotta lo chiamò alle spalle: «Amore, che fai? Non vieni?». Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere fino alla tavola apparecchiata. Carlotta gli fece cenno di sedersi vicino a lei ma aveva la testa girata nella direzione opposta, tutta protesa in adorazione del padre, con cui aveva già intavolato una discussione su Bruegel il Vecchio. Curatore museale lui, studentessa al terzo anno di Storia dell’arte lei, messi insieme erano una rottura di palle a orologeria.

Luca si sedette fissando il posto vuoto davanti a sé, ma un rumore di tacchi sembrò suggerirgli che presto sarebbe stato occupato. Un rossore silenzioso gli si diffuse sulle guance. Pochi istanti dopo, la madre di Carlotta era di fronte a lui, con una teglia di lasagne fumanti tra le mani. Nessuno sembrò far caso al suo arrivo, perciò Luca si alzò di scatto per aiutarla, «Ci penso io, Nunzia», e nel passarsi la pirofila le loro dita si sfiorarono in un saluto complice.

«Lo vidi seguire il profumo dell’arrosto attraverso l’intreccio del parquet di rovere.»

Durante la cena si trincerarono entrambi dietro la sicurezza di una conversazione banale, Nunzia gli chiese come fosse andato l’ultimo esame di Giurisprudenza, passandosi la mano senza fede tra i capelli sciolti; Luca si informò sui progressi dei suoi studi di pianoforte, rigirando il calice di vino tra le mani. Gli altri però non notarono quelle lunghe pause, nelle quali Nunzia fumava nervosamente spegnendo lo sguardo ansioso sulle labbra di Luca. E non si accorsero neanche degli occhi di lui, che rimbalzavano dal neo sul mento di lei al terzo bottone, sfacciatamente slacciato, della sua camicia. Un piede si liberò zitto dalla propria scarpa per muoversi con discrezione sotto al tavolo.

«Mi aiuti a portare il tiramisù?» Quello era il segnale. Anche la settimana precedente erano scomparsi prima del dessert. Sperai che almeno quella volta rimettessero in ordine le coperte del mio letto. Non sapete quante cose si possano vedere da questa poltrona. Loro credono che io non sia più lucida, eppure, sebbene ormai mi sembrino tutti degli estranei, sento di conoscerli molto meglio di prima. Nonostante questi novanta anni, oltre la vacuità del mio Alzheimer, riesco ancora a riconoscere l’incendio di due cuori che bruciano.

bio irene Montano

Irene Montano è nata a Livorno nel 1986. Esploratrice entusiasta e anima irrequieta di professione, lavora nel mondo del vino e studia Lingue e Letterature straniere presso l’università di Pisa con il sogno di diventare traduttrice letteraria. Si è classificata tra i dieci finalisti del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il Vulcano 2023 con la poesia Kikládhes.

papagno giorgia racconto

raccontamelo ancora

Un racconto di Giorgia Papagno
Numero di battute: 2400

Sei a metà di questo volo Ryanair operato da Air Malta tratta Bologna-Creta e pensi a quando quindici anni fa vivevi nella contea di Westchester, pensi a quando hai detto a qualcuno che ti sentivi sempre molto sola, o meglio, che forse i momenti belli ed epifanici li avevi quando eri sola, e che non avresti mai scritto il libro che lui ti diceva / tutti ti dicevano sempre che avresti dovuto scrivere anche solo per le cose assurde che avevi visto e che avresti voluto che gli altri vedessero, tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada a Westchester e tutto sapeva di umido e di aghi di pino e di carogna di animale da macello e di tutte le altre cose per cui amiamo l’America, ma come potevi essere certa che qualcuno leggendo del cervo non solo vedesse il cervo ma sentisse il cervo, sentisse te che vedevi il cervo?

Peraltro se sei della contea di Westchester o di Asiago, magari vedere un cervo non ti pare nemmeno un avvenimento così straordinario senza tutto il sottotesto che tu ci hai letto (era uscito Oracular Spectacular e sull’iPod nano 4G Pieces of What a ripetizione mentre tu guardi il cervo e lui guarda la striscia di verde bagnato e sottoesposto dall’altra parte della striscia d’asfalto), comunque stiamo per atterrare a Creta, ora guardi la striscia di mare dal finestrino e pensi a quella giornata a Westchester in cui forse non hai visto un cervo ma avresti potuto vederlo, e hai raccontato quella storia così tante volte che ti sei convinta di averlo visto ma forse hai invece solo avuto paura tutto il tempo di vederlo, che poi era stato forse peggio di vederlo perché:

1)    l’ansia di trovarsi faccia a faccia con un cervo, che in America non sono cervi ma sono alci;

2)    la delusione di non esserti trovata faccia a faccia con un cervo, che avrebbe coronato quel momento tutto umido di aghi di pino e di carogna di animale da macello;

«Tipo quel cervo che nell’estate del 2009 ti aveva attraversato la strada.»

3)    Il patetico tentativo di renderti interessante raccontando di aver visto un cervo mentre camminavi sul ciglio della strada umida di pioggia estiva nella contea di Westchester.

L’altoparlante annuncia l’ultima possibilità di acquistare in supersconto un profumo Paco Rabanne, dei gratta e vinci di beneficienza prima dell’atterraggio. Ti picchietti l’indice sull’orecchio per chiedermi togliere le cuffie, mi posi una mano sulla coscia, mi fai:

Ti ho mai raccontato di quando all’università vivevo a Westchester?

papagno giorgia bio

Giorgia Papagno nasce a Brescia nel 1987, si laurea in Lettere Moderne a Padova e trascorre un periodo di studio alla Columbia University di New York. Al suo ritorno in Italia si specializza in Didattica della lingua italiana a stranieri a Ca’ Foscari. Insegna precariamente nella scuola pubblica. I suoi lavori sono apparsi in riviste come Lahar Magazine, Clean, Auralcrave, The Loch Raven Review. Poesie e fotografie dalla raccolta inedita Non Sarò Mai Manhattan sono state pubblicate da RatPark e L’Appeso; alcuni testi sono andati in scena, altri sono diventati musica.

racconto Francesca Ranza

carlotta

Un racconto di Francesca Ranza
Numero di battute: 2321

Andavo all’asilo con una bambina, tale Carlotta, che a un certo punto, in circostanze mai chiarite, venne scelta come coprotagonista (con lei c’era un’altra tizia più grande che parlava pure, Carlotta invece faceva solo delle facce) della pubblicità dei Fiammiferini. Quando si rese conto che tutti i suoi compagni l’avevano vista in tv, Carlotta, che era sempre stata una bambina educatissima, perfino timida, iniziò improvvisamente a comportarsi come una specie di Briatore. Si fece fare un permesso per entrare e uscire dall’asilo quando le pareva, cominciò a portare tutto il tempo dei ridicoli occhiali da sole azzurri glitterati e a comandare noialtri a bacchetta.

La cosa che le piaceva fare più di tutte era chiedere a qualcuno di tenere una roba sua in mano mentre lei si sistemava i capelli. Le piaceva così tanto che a volte si appropriava temporaneamente degli oggetti più ingombranti che riusciva a trovare solo per fare questa sua scenetta. Aveva dei ricci bellissimi.

«Aveva dei ricci bellissimi.»

Un giorno vidi Carlotta sollevare un’enorme cesta di vimini piena di chiodini – ginocchia tremanti, guance paonazze, occhi fuori dalle orbite – e, proprio un attimo prima di soccombere, lanciare un urlo, soffocato e spaventoso, al povero Emilio che passava di lì in quel momento. «Reggimi questo! Prendilo subito!» Lui scattò prontamente e le prese quell’affare dalle mani. Lei iniziò a spostarsi i ricci da una parte all’altra della testa, sbuffando lenta, lentissima. Emilio resistette solo per qualche secondo, poi lasciò cadere la cesta che rovinò al suolo insieme ad almeno un miliardo di chiodini. «Sei scemo, Emilio? Raccoglili subito» si lagnò stizzita Carlotta.

Avrei voluto dirle qualcosa, qualcosa tipo “perché ti affanni tanto, Carlotta, tutto questo non ha alcun senso, siamo tutti miserabili allo stesso modo, tutti accomunati dallo stesso tragico destino”. Invece un giorno mi ordinò di tenere in braccio un leone di peluche gigante che puzzava di saliva e io lo feci, senza fiatare, per quattro minuti buoni.

Ci rincontrammo per caso al secondo anno di liceo. Era piena di brufoli, e infatti faceva la pubblicità di una crema contro i brufoli. Per entrambe le cose, si vergognava. «Ti ricordi quella volta del leone?» le chiesi. Ma Carlotta non si ricordava, o almeno mi disse così. Peccato, pensai, era stato bellissimo.

Ranza Francesca bio

Francesca Ranza è nata e cresciuta a Milano. Studia Letterature comparate a Ca’ Foscari e lavora per la rivista letteraria Galápagos. 

muscolino emanuele racconto

la linea e il cerchio

Un racconto di Emanuele Muscolino
Numero di battute: 1981

C’è una zona d’Italia popolata di turbine eoliche più di ogni altra, dove il vento soffia fino a farti impazzire. Certe sere d’inverno si intrufola come un torrente tra i vicoli dei paesi, zavorra sporte di anziane di ritorno dalla spesa, trasforma in vele cappotti e quotidiani minacciando di sollevare da terra i più leggeri.

Rocchetta Sant’Antonio, Lacedonia, Melfi: un fazzoletto di terra tra Capitanata e Irpinia, dove le pendici appenniniche si inchinano ai viandanti, concedendo un passaggio agevole verso levante, un fazzoletto su cui la neve, a volte, non riesce a posarsi, trattenuta in cielo dal sospiro delle correnti.

«Dal basso
le idolatrammo
come totem.»

Ci arrivammo con le bici sotto una di quelle turbine, a un passo dal pilone, sulla via che dal Salento ci riportava a Roma. Era un pomeriggio d’agosto e stavamo attraversando il confine di ponente del Tavoliere, quando la nostra navigatrice − molto estrosa, bisogna ammetterlo, pur trattandosi di un’applicazione − per farci evitare un tratto a doppia carreggiata, ci fece infilare una sterrata sorvegliata da branchi di cani da guardia con la bava alla bocca (dovemmo difenderci con i clacson e con le pompe), prima di spedirci per un dirupo di sassi.

Le pale le incontrammo al di qua del dirupo, al centro di una piana, circondate dalla terra che zelanti trattori rimestavano sollevando nuvoloni di polvere; scendevano come drappi, senza stridere, producendo a ogni caduta un boato oscuro, e di nuovo si levavano senza peso, come filassero in linea retta (ovvio, invece, che stessero seguendo l’antica geometria del dono).

Dal basso le idolatrammo come totem, come moderne divinità danzanti. Ricordo l’azzurro compatto prima del tramonto e le lame che lo pettinano lasciando una scia impalpabile: la linea e il cerchio, noi col naso all’insù a spiare l’ignoto, in compagnia delle nostre sbiadite ombre, che avevano attraversato quelle lande pochi giorni prima, in senso inverso, tuffandosi incontro all’estate. La strada che va, la strada che torna.

muscolino emanuele

Emanuele Muscolino è nato a Roma nel 1984. Dopo la laurea in Arti e scienze dello spettacolo ha pubblicato il saggio Paradossi della soggettiva. Visione pura e visione-sguardo nella sequenza cinematografica. Ha lavorato come montatore per il cinema e la tv ed è autore di cortometraggi, documentari e reportage. Dal 2023 i suoi racconti e le sue poesie sono pubblicati su blog, riviste e antologie.

racconto ficagna stefano

partenza

Un racconto di Stefano Ficagna
Numero di battute: 2482

Decisi di impiccarmi di venerdì perché il giorno prima c’erano le ultime prove con la band. Il nuovo bassista aveva ancora dubbi su certi passaggi delle canzoni, i ragazzi stavano partendo per un minitour di quattro date e stavolta in dei locali di richiamo. Glielo dovevo, dopotutto: li avevo avvertiti all’ultimo e nessuno aveva fatto storie, anche se era ovvio che gli dispiacesse per il mio abbandono. In tutti i sensi.

Mamma preferì non commentare. Stette in silenzio per qualche secondo quando le diedi la notizia, poi iniziò a parlare d’altro per non litigare. Le uscì solo, a un certo punto della conversazione, un «ma con tutte le cose che potevi fare al mondo», poi si morse la lingua. Capivo il suo punto di vista, con il figlio maggiore all’estero e il minore presto all’altro mondo. Riuscii comunque a strapparle un sorriso prima di chiudermi alle spalle la porta della casa in cui ero cresciuto.

«Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare
sul semplice.»

Per l’ultima serata a questo mondo volevo restare sul semplice, una proiezione del mio film preferito fra pochi intimi con birra ed erba, ma un amico mi convinse ad andare a uno spettacolo di stand-up comedy. Suo fratello, mi aveva assicurato, aveva riso come un matto prima di tornare a casa per spararsi in bocca. Il comico fu bravo, ma lo frenava un po’ il doversi dividere fra qualche frecciatina sui miei piani a lungo termine e le battute al tavolo di una ragazza dai capelli rossi, che festeggiava la laurea con un gruppo di amiche.

A fine spettacolo la neolaureata si avvicinò, ubriaca e con il tocco ancorato precariamente a una treccia. Mi fece gli auguri, pensando stessimo festeggiando un compleanno: quando le dissi che fra poco non ci sarei più stato fece un sorriso imbarazzato e biascicò un «buona morte» che mi sembrò stranamente sensuale. Era carina e non volevo ci rimanesse male, così ricambiai gli auguri e la salutai con un abbraccio.

A casa brindammo con un whisky che avevo tenuto da parte per le occasioni speciali, tipo sposarmi o fare un figlio, avvenimenti che ormai mi sentivo di escludere. Quando eravamo tutti moderatamente sbronzi ricordai a un’amica di tirarmi giù la mattina dopo, lei fece un cenno con la mano come a dire di non scocciare e lasciai la sala mentre girava l’ennesima canna. Arrivato al piano di sopra salii sulla sedia, infilai la testa nel cappio, strinsi la corda e mentre dal basso mi arrivavano le risate dei miei amici mi lasciai andare in avanti, sentendomi grato per tutto quell’amore che non bastava a tenermi in vita.

Ficagna Stefano

Stefano Ficagna nasce a Novara nel 1979 e nella vita produce bottoni e racconti. Alcuni dei secondi sono apparsi su riviste letterarie come Clean, Split, In Fuga Dalla Bocciofila e inutile. Ha vinto il concorso Romanzo Brevissimo (2021) della casa editrice WoM, alcune sue microfinzioni sono pubblicate nell'antologia multiperso (pièdimosca, 2022), si è classificato secondo all'edizione 2022 del concorso Laventicinquesimaora e ha partecipato alla raccolta Live! (Arcana, 2023). Collabora col sito Read and Play e dal 2020 gestisce il blog Tremila Battute, in cui pubblica racconti brevi ispirati da canzoni del panorama musicale indipendente.

alice cervia racconto

lettera a gabriele

Un racconto di Alice Cervia
Numero di battute: 2466

Ciao Gabriele,
il cane è qui.

Ho pensato a tante diverse introduzioni per questa lettera: ontologiche, etologiche, filosofiche, oniriche, empiriche.
Alla fine però esiste solo un modo per dirlo: il tuo cane è qui.

Ti vedo già che ti gratti un orecchio e pensi come rispondere a un’affermazione palesemente falsa.
Mi scriverai che il cane è morto. Sepolto, ingiardinato, sub-geraniato, pianto e compianto.
Eppure è così.

Avrei potuto mandarti un video. Ma non ho internet, neanche il telefono.
Abbiamo poche cose qui. L’occorrente per scrivere. Acqua fresca e pane.

I cottage sono silenziosi. Per questo motivo l’ho sentito subito. Un uggiolio che sembra una risata.
Sono uscita e ho visto Blek. Blek Macigno, come l’avevi chiamato nonostante le obiezioni dei tuoi figli.
Lui senza ombra di dubbio: pelo, odore, naso umido e cicatrici delle zuffe in strada.
L’ho fatto entrare e ora russa sul divano.

«Ciao Gabriele,
il cane è qui.»

Ho pensato che dovevo scriverti, anche se probabilmente non ti faranno entrare quando dirai di voler venire a prenderlo.
Forse però posso portartelo io, il tuo cane, quando esco di qua.

Naturalmente mi sono posta delle domande. Non dubbi, no.
A parte che i dubbi non si pongono, i dubbi spuntano, germogliano, invadono.
Questa volta però, senti come suona bene per me che non l’ho mai scritto, non avevo il minimo dubbio.
Era il tuo cane. Era Blek.

Niente dubbi ma domande quindi:
Avevi finto che Blek fosse morto per abbandonarlo in autostrada e andartene in vacanza? Escluso. Non sei il tipo che va in vacanza in autostrada.
Blek aveva avuto un episodio di morte apparente e si era scavato una buca verso la libertà a lato dei gerani? Difficile, visto che l’avete cremato.
Quindi Blek, che dorme sul mio divano, è un fantasma.

C’è anche la possibilità che lo veda solo io. Non ho avuto modo di verificare, visto che qui, da giorni non passa nessuno.
Un writing retreat silenzioso, ne avresti riso. Ride anche Bleck, mentre dorme.
Puzza tantissimo, ma puzza di cane vivo. Però di certo è un fantasma.

Ho pensato comunque di avvertirti, nel caso in cui ti facessero entrare.
Così puoi verificare se lo vedi anche tu. Magari lui preferirebbe venire a casa con te e infestare il tuo divano, anziché questo salottino impersonale. Ne sono sicura.

Alice

PS: mentre stavo per imbustare la lettera mi sono accorta che non ho buste né francobolli.
Mi sono anche accorta che nel laghetto in giardino nuota Cip. Il mio pesce rosso di quando avevo dodici anni.
Sento rampicare qualche dubbio.

cervia alice

Nata in Toscana nel 1984, laureata in Scienze Politiche, giornalista prima, video producer poi. Ha pubblicato su Rivista Blam, Coye, Piegàmi, Bomarscé, la nuova carne, Pastrengo, Tits’n’Tales, Cedro Mag, Spore, Salmace, Nido di Gazza, Crack Rivista. Nel 2022 è stata tra i vincitori del premio Short Kipple e del contest letterario Crimen Cafè.

migliorini racconto

nel paese delle case che bruciano

Un racconto di Andrea Migliorini
Numero di battute: 1988

La mattina in cui Piro mi spiegò per la prima volta come si usa un accendino, mia madre e mio padre erano usciti per fare la spesa.
Me lo regali? gli chiesi indicando il clipper. In casa mia non avevamo accendini. No, mi disse, non te lo regalo. Però possiamo andare a comprarne uno.

Piro guidava un 125 della Yamaha. Indossammo i caschi. Seguimmo le strade intorno a Monte Scuro fino a un’uscita che non conoscevo. Vedevo luci chiare, morbide.
Siamo nel paese delle case che bruciano, disse Piro.
Scesi dalla moto. A pochi passi da me, un gruppo di uomini.

Noi bruciamo le case che costruiamo, disse quello che sembrava il capo.
È questo che fate? chiesi. Non potevo togliermi il casco.
Sì.
Costruite case.
Sì.
E poi le bruciate.
Sì, poi le bruciamo.
Guardai Piro. Mi fece un cenno con la testa.
Dove posso comprare l’accendino? chiesi all’uomo.
Lo vidi prendere qualcosa dalla tasca.
Il metallo del clipper era freddo.

«Dove posso comprare l’accendino?»

Mentre risalivamo in moto, chiesi a Piro se ci avesse mai pensato.
A cosa, fece lui.
A bruciare le case.
Quali case?
La tua, la mia. Le nostre case.
Forse, disse. E tu?

Arrivammo. La benzina, quella la prendemmo dal 125: la lasciammo cadere nelle stanze di entrambi i piani. Creammo linee simili a quelle degli aerei quando scatta il segnale di emergenza. Al 3, dissi.

Dalla visiera del casco, vidi la macchina dei miei genitori avvicinarsi alle fiamme. Mia madre portava le buste della spesa. Si intravedeva il tappo del detergente. Mio padre, il palmo della mano rivolto verso l’alto, disse: Comincia a piovere. Sorrise.
Io mi tolsi il casco. Pioveva davvero.

Quando le fiamme si furono calmate, mia madre entrò in cucina per sistemare la credenza: la luce funzionava ancora. Tossì un paio di volte. Si affacciò e ci chiese se volessimo fermarci per cena.
Piro si tolse il casco. Entriamo? disse. Sembrava una domanda.
Quasi mi vergognavo di sentire ancora il metallo dell’accendino nella tasca dei pantaloni. Sì, entriamo, dissi. Entriamo. Fuori continuava a piovere.

Migliorini Andrea Bio

Andrea Migliorini (1997) è convinto di vivere nel Maradagàl. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana e altre riviste. Un suo racconto è stato pubblicato in un’antologia curata da Wu Ming 2. È co-fondatore di Coye – Periferie Letterarie e scrive per Hypercritic. Ha collaborato alla curatela del numero 40 di Stratagemmi – Prospettive Teatrali.