Pastrengo Agenzia Letteraria

Monthly Archives: Settembre 2021


racconto feleppa claudia

una pagina al giorno

Un racconto di Claudia Feleppa
Numero di battute: 2375

I rintocchi della chiesa di San Biagio da ieri mi sono sembrati pressanti. Ma forse è perché è stato sabato e poi oggi è domenica. Non avevo mai passato tanto tempo a casa prima. Giovedì ho portato mamma allo spaccio della Max Mara e le ho regalato un vestito turchese, il suo colore, largo, con le spalline imbottite.

«Ti sta benissimo» ho gorgheggiato.

Non era esattamente una bugia, ma avrei detto lo stesso anche se si fosse infilata dentro uno scafandro. Non la vedevo da un paio di mesi e mi aveva fatto una telefonata spaventosa: «Allora come funziona? Vuoi che non ti chiami mai più?»

«Vuoi che non ti chiami mai più?»

Che pesantezza. Come se fossero legate a doppio filo – e di fatto lo sono – ieri sera alle otto ha chiamato anche nonna. Mi ero appena seduta a tavola, ho posato coltello e forchetta sul piatto, vicino al pollo alla griglia che non avevo toccato e ho ascoltato i consueti rimproveri perché non chiamo mai. Poi mi ha raccontato per l’ennesima volta il litigio di Natale che mi sono persa sei mesi fa. A questo punto era quasi meglio esserci. A metà telefonata il pollo aveva raggiunto la rigidità di una soletta per scarpe. Cose così. Cose di casa.

Papà invece mi ha scritto, ma solo per inoltrarmi una mail inutile, nemmeno indirizzata a me, ma ai fratelli di mamma a proposito di nonna, per ribadire quanto è pessimo il loro rapporto. E il nostro invece? Non c’è niente che deve dirmi personalmente mio padre, niente di cui scusarsi? Vabbè. Forse funziona per tutti in questo modo e non dovrei prendermela. D’altra parte io cosa faccio per cambiare le cose? Mamma mi ha detto: «Ma perché sempre tu? Perché il peggio toccherebbe solo a te?»

Intendeva sottolineare la mia paranoia o dire che me le vado a cercare? Non lo so. Di sicuro c’è che dovrei staccare la spina. E così ho comprato una di quelle piscine gonfiabili con idromassaggio. L’ho messa in terrazzo e il mio nuovo gattino, iperattivo e feroce, ci gira intorno cercando di definire il suo posto nel mondo. Ho letto che l’aggressività può dipendere dallo stress da abbandono, così gli bacio le piccole orecchie tonde e gli permetto, in pratica, qualunque cosa.

Ma sono andata oltre la pagina al giorno. Ecco di nuovo le campane di San Biagio. È quasi mezzogiorno. Forse la messa è finita, andate in pace! Per pranzo ho insalata di pomodori e pannocchie bollite. E comunque si era detto una pagina al giorno. Né più, né meno.

feleppa claudia bio

Claudia Feleppa vive nel parco del Conero dove lavora nella scuola superiore. Riesce a stare senza tè e libri solo a teatro. Dipinge un quadro a olio più o meno ogni tre anni, d’inverno, se nevica. Ogni tanto gira video con i tipi del Twicedoubleseven perché può usare la macchina del fumo e truccare i ballerini. In posa con la chitarra viene bene, ma meglio se non suona. Fa tutto questo per mescolare le carte e nascondere la turpe passione per la scrittura.

racconto giovanni marco maggio

mettere le cose a posto

Un racconto di Giovanni Marco Maggio
Numero di battute: 2491

Si chiese che ci facesse quel barattolo di cetrioli sottaceto tra i cereali. Andò verso la corsia per rimetterlo a posto e, dal megafono, sentì arrivare la voce del capo che chiamava tutti i dipendenti a rapporto. Lasciò il barattolo sul primo ripiano disponibile e raggiunse le casse. Lui attese che tutti fossero lì e poi disse che mancavano venti euro. Il ragazzino chiese da dove e il capo lo ignorò e poi domandò a chiunque fosse stato in cassa durante il turno pomeridiano di alzare la mano.

Lei sollevò il braccio e così fecero altri due suoi colleghi e il capò li squadrò e poi disse deve essere colpa di uno di voi tre. Lei si sistemò la polo rossa dentro i pantaloni e scosse i fianchi e il capo disse tu sei esclusa perché al massimo ruberesti la mortadella dalla salumeria e poi aggiunse che, per questa volta, non aveva intenzione di approfondire la questione ma dovete stare più attenti, adesso andate a casa, chiudo io. Fecero di sì con la testa e presero le giacche dall’attaccapanni e uscirono.

Il bus che le passò accanto sollevò le foglie morte accatastate sul bordo della strada e lei infilò la faccia dentro la giacca e camminò. Lui era appoggiato alla macchina. Le chiese quanto avesse e lei gli diede la banconota e lui disse solo questi. Lei tirò su col naso e aprì lo sportello dal lato passeggeri e gli disse di guidare.

«E poi disse
che mancavano
venti euro.»

Si appartarono nel parcheggio della zona industriale e lei gli sbottonò i pantaloni e glielo prese in mano. Cercò di baciarlo e di salirgli addosso a fatica ma lui gli disse che, con quei soldi, era il massimo che poteva offrirle. Lei non protestò e intanto gli accarezzava la coscia da sopra i jeans e poi finì e gli chiese di riaccompagnarla. Sotto casa, lui le disse alla prossima e fatti sentire e lei gli disse non so se ci sarà e gli chiuse lo sportello in faccia, poi salì le scale e aprì la porta.

Aiutò il padre a lavarsi e gli chiese come stai e lui emise un grugnito e lei lo asciugò e lo mise a letto. Mangiò in piedi, nella cucina della sua infanzia, e passò due minuti a fissare il rumore giallo del frigo. Prima di addormentarsi, frugò nel portafoglio del padre, scartò vecchi scontrini e si mise in tasca un pezzo della pensione.

Il giorno dopo tornò al lavoro e si ricordò del barattolo di cetrioli e lo posò accanto agli altri. Aveva già finito il turno da quattro ore quando il capo chiamò di nuovo tutti a rapporto per dire che aveva fatto i conti e non poteva essere una coincidenza ma in cassa risultavano venti euro in più.

Giovanni Marco Maggio

Giovanni Marco Maggio (1993) è nato a Marsala e vive a Roma. Ha studiato, viaggiato, letto, lavorato, cucinato, scritto e letto. Ha collaborato con giornali e portali online e sta lavorando a una raccolta di racconti. Tendenzialmente evita gli avverbi.  

racconto venere marino caterina

la carne

Un racconto di Caterina Venere Marino
Numero di battute: 2493

Quando finì l’ultimo sorso di quel vino che bruciava gola e petto, Menico si alzò da terra e riprese a raccogliere con mani rapide le olive piccolissime che puntinavano la sua proprietà.

Era di poche parole, Menico. Amava riposare sotto l’albero di fico e diffidava delle persone che elargivano complimenti e sciorinavano carinerie. Quelle, a suo dire, erano le più pericolose.

Di ritorno dalla campagna, l’uomo trovò la figlia Teresina a letto, madida di sudore e con il respiro affannato. Chiese a Maria, sua moglie, cosa fosse successo. Maria raccontò che era appena passata la vicina per un caffè: «Sai quella che ha tutti figli maschi ma voleva tanto ’na femminuccia?» quando la bimba si era sentita male, così, all’improvviso.

Non gli era mai andata a genio, quella. Troppe parole, troppe smancerie.

Menico uscì per cercare di calmarsi. Si stava dirigendo verso il fico quando udì un forte ronzio.  Giunto ai piedi dell’albero, vide un nero ammasso di mosconi levarsi da un pezzo di carne putrescente. Non era una carogna, piuttosto aveva l’aria di un taglio di macelleria piazzato lì da qualcuno.

«Troppe parole, troppe smancerie.»

Menico rimase a fissare quel pezzo di carne che pareva vivo nella sua brulicante decomposizione. Quindi si ridestò, rientrò in casa e ne uscì subito con uno straccio, un secchio di latta e dei fiammiferi. Si coprì il viso con l’incavo del gomito, prese la carne fetida con lo straccio, la gettò nel secchio e vi fece cadere dei fiammiferi accesi. Non appena le fiamme l’avvilupparono, gli insetti si dispersero.

Con il corpo scosso dall’adrenalina, Menico si diresse a passo svelto dalla figlia.
Teresina era sempre a letto ma aveva ripreso colorito in volto e sorrideva.

«Come stai, zemër?» le chiese Menico avvicinandosi.
«Mire» rispose Teresina, mentre con le dita sua madre le tracciava piccole croci invisibili sulla fronte e recitava un Padre Nostro e un’Ave Maria, alternativamente.
A ogni Ave Maria, la madre sbadigliava me lot, con le lacrime.
«Një gra, una donna!» esclamò rivolta al marito.

Menico non disse nulla ma uscì dalla stanza a passo lento. Quindi, prese una sedia di vimini dal salotto, la portò fuori e si sedette ai piedi del fico dove, ancora pregno della carne, il secchio giaceva muto. L’uomo chiuse gli occhi e lasciò che il sole, oltrepassando le ruvide foglie ondulate, gli sciogliesse i muscoli contratti.

Menico amava riposare sotto l’albero di fico.
Diffidava delle persone che elargivano complimenti e sciorinavano carinerie.
Quelle, erano le più pericolose.

venere marino caterina bio

Caterina Venere Marino (1994) vive a Milano da sempre ma è nata a Crotone e ha origini arbëreshë, ossia greco-albanesi. È laureata in Lingue e Letterature straniere e insegna Francese alle scuole medie. Collabora con il sito di recensioni Mangialibri e con TED traducendo i sottotitoli dei video animati di divulgazione tematica.

Migliorini Andrea Racconto

l’ anno della fame vuota

Un racconto di Andrea Migliorini
Numero di battute: 2466

Quell’anno parlavo poco e quando uscivo da scuola fissavo le foglie delle piante che sbucavano dalle recinzioni delle siepi. A volte le strappavo e me le infilavo in tasca. Poi tornavo a casa.

Non avevo mai fame, quell’anno. Quando ci sedevamo a tavola per cenare mia madre mi faceva un sacco di domande. Io mi limitavo ad alzare lo sguardo e a fissarle la punta del naso. Mi si incrociavano gli occhi. La stanza si offuscava e mia madre sembrava una macchia.

«Non parli perché non mangi.»

Continuava a ripetermi: Non parli perché non mangi. Io sbuffavo e giocavo con la forchetta nel piatto. Mia madre mi misurava le braccia e schioccava la lingua. Poi chiamava mio padre al telefono e gli diceva, in vivavoce: Giorgio, non lo vedi quanto sta dimagrendo, tuo figlio? Diventerà una pianta, tuo figlio. Poi mi guardava negli occhi e diceva: Una pianta muta, diventerà. Mio padre la lasciava parlare ancora per qualche secondo. Poi attaccava.

Un giorno, quell’anno – era l’alba, era un sabato mattina, era l’inizio dell’estate – mi svegliai affamato. Una fame strana, vuota. Mi affacciai alla finestra di camera mia e guardai il pavimento chiaro del cortile. Aspettai. Sentivo che aspettare era giusto. Il cielo si schiariva. Il sole salì. Solleticò la ruggine della grondaia e il vetro della mia finestra. Ma l’obiettivo del suo arco era il centro del cortile – e io lo compresi, e annuii, e uscii dalla mia camera e scesi le scale.

Il cielo era duro e io camminavo a piedi nudi sulle pietre calde. Mi misi al centro. Inspirai a pieni polmoni l’odore della pietra cotta dal sole. Mi tolsi la maglietta del pigiama. Aprii le braccia. Mi sfilai i pantaloni. Il sole mi bruciava la pelle. Chiusi gli occhi. Passarono ore. Io non mi mossi, non parlai. 

Mia madre uscì in cortile. Teneva in mano un vassoio con la colazione: cereali, latte e biscotti. Si fermò. Mi fece una domanda. Io non potevo risponderle. Non riuscivo nemmeno a girare la testa.

Mia madre lasciò cadere il piatto e tornò in casa. I cereali si sparsero tra le fughe delle pietre del cortile. Il latte colò dalla bottiglia. Il sole lo avrebbe fatto bollire. 

Sentii mia madre che parlava al telefono con mio padre. Disse: Te lo dicevo, Giorgio, che sarebbe diventato una pianta, tuo figlio. Un vegetale

Quindi mia madre cercò qualcosa in cantina e uscì di nuovo in cortile con un annaffiatoio in mano. Cominciò a bagnare il punto da cui non mi sarei più mosso. Mi chiese se l’acqua fosse abbastanza fredda, ma io non potevo risponderle. 

Migliorini Andrea Bio

Andrea Migliorini (1997) è convinto di vivere nel Maradagàl. Quindi legge e studia e sbuffa, come Gonzalo. E sa fare poco altro. Ogni tanto scrive. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana e altre riviste. Un suo racconto è stato pubblicato in un’antologia curata da Wu Ming 2. È co-fondatore di Coye – Periferie Letterarie e scrive per Hypercritic. Ha collaborato alla curatela del numero 40 di Stratagemmi – Prospettive TeatraliSostiene di aver pianto solo due volte nella vita: leggendo 2666 e La Montagna Incantata.